I greci (e noi, di riflesso) hanno per le mani un’opportunità
irripetibile che richiede una suprema dose di incoscienza. Tsipras ha la
micidiale presunzione del ‘tanto peggio tanto meglio’, insufficiente però a realizzare
un’impresa che di coraggio non ne esige molto, ma troppo. Intanto si chieda se sia
minimamente digeribile, oltre che politicamente dignitoso, sorbirsi, il giorno appresso a una strepitosa
vittoria elettorale, i sermoncini propedeutici alla frusta di una francese, di
un olandese e di un italiano: “Non possiamo fare categorie speciali per questo
o quel paese” (Christine Lagarde, direttore generale del Fondo Monetario
Internazionale); “ad Atene è già stato concesso molto” (Jeroen Dijsselbloem,
presidente dell’Eurogruppo); “ci vogliono misure volte a migliorare
l’efficienza dell’amministrazione fiscale” (Mario Draghi, presidente della
BCE). E’ tollerabile da un uomo di media statura intellettiva e di menomo senso
civico che tre soggetti stranieri in tutto e per tutto (perché alieni di
lingua, cultura, tradizioni, cittadinanza) dettino le regole agli ‘eletti’ della
comunità di cui quell’uomo fa parte? La risposta è no. Si tratta di intrusioni
irricevibili che gridano vendetta alle orecchie di chiunque abbia mai
masticato nozioni base di democrazia. Concetti,
fra l’altro, scaturiti proprio da una terra di cui i Mercati internazionali hanno
fatto strame. La Grecia, culla della democrazia, ne sarà la tomba? Forse no. C’è
un paradossale cortocircuito spazio-temporale con gli albori della civiltà
ellenica e disponiamo pure della password per attivarlo: ‘debito’. Le prime poleis dove fermentò il rivoluzionario
progetto di autogoverno che mandava in soffitta la sottomissione a un sovrano-dio
non erano poi così perfette. I contadini poveri che non riuscivano a rimborsare
i prestiti ai proprietari delle terre migliori, divenivano ‘schiavi per debito’
o, se preferite, ‘schiavi del debito’, perdevano la cittadinanza e i loro corpi
si tramutavano in oggetti di proprietà del creditore. Ecco perché gli altezzosi
richiami del terzetto Lagarde-Dijsselbloem-Draghi innescano un vertiginoso deja vu. I greci odierni hanno abdicato
al dominio sui propri destini, sulle proprie autonomie, sui propri stessi corpi
e quindi sono, di fatto, schiavi del debito alla pari degli antichi e bucolici
progenitori dell’Ellade. Ciò che Tsipras &
supporters non hanno compreso fino in fondo è che il peccato di cui si sono
macchiati, anzi marchiati, è persino più grave dello sperpero compulsivo,
dell’evasione congenita, dell’amministrazione cialtrona di cui li tacciano i nuovi
padroni dell’agorà globale. La colpa primigenia è di aver accettato un format
che contemplava la dipendenza coatta dalle
scelte altrui per fornire di pane e companatico i propri figli. Katerina
Giannaki, membro del Sae, il Consiglio dei Greci all’estero, ha
meravigliosamente sintetizzato la tragedia greca: “Siamo stati una cavia di un
sistema economico finanziario che non funziona più. Anziché ridarci i soldi per
ciò che ci hanno fatto nel 1945, così come l’eroe Manolis Glenzos ha chiesto
ufficialmente al Parlamento europeo, i tedeschi oggi pretendono ciò che noi non
potremo mai dare”. Gli elettori commossi
e commoventi che manifestano in piazza Sintagma non colgono quanto rischino di
risultare inani gli sforzi del loro nuovo paladino nel momento in cui la borsa
di Atene crolla di dodici punti e i titoli del debito decennale sfiorano o
sfondano rendimenti del nove per cento. Varoufakis va a Berlino con la schiena
dritta (un accessorio di cui i politici italiani sono fisiologicamente privi),
ma poi, risalito in motocicletta, dovrebbe ripensare a ciò che dice (“Umiliarci
è un rischio, la Germania sa bene che cosa può succedere quando si scoraggia troppo
a lungo una nazione orgogliosa e la si espone a trattative e preoccupazioni di
una crisi del debito effettiva, senza luce alla fine del tunnel”). Rievocare
Weimar è una puntuta stoccata alle smanie egemoniche della Merkel, ma, esaurita
la scossa adrenalinica della sfida, al buon Yanis resta in mano una verità
solida e rotonda quanto le ruote della sua Harley Davidson: lui e l’intera
compagine di governo, premier compreso, sono schiavi ne più né meno (anzi forse
di più) dei loro avi agricoltori di duemila e settecento anni fa. Per le
vittime del debito di allora una via di
fuga fu la Magna Grecia, cioè la colonizzazione delle sponde dell’Italia
Meridionale a cui regalarono le vestigia che ancor oggi il mondo ci invidia.
Schauble, il plenipotenziario in materia economica del nuovo Reich a dodici
stelle su campo blu, ha dichiarato che
“alcune delle misure proposte dalla Grecia non vanno nella direzione che noi
approviamo”. La capacità di resilienza umana è sbalorditiva. Per quanto ancora,
i cittadini greci potranno subire affermazioni di tal fatta dal ministro delle
finanze di un paese terzo che non ha niente a che spartire con la gloriosa
storia greca se non spartirsi (in nome dei potentati che rappresenta) le
spoglie residue di un paese saccheggiato? Veniamo all’opportunità che si presenta
al vincitore delle elezioni. È chiara per Syriza? Sicuramente sì, soprattutto
dopo che l’ineffabile capo della BCE ha promesso che non alimenterà più il
debito di Atene con nuovi acquisti di
titoli battezzati alla stregua di junk
bond dalle agenzie di rating. Però ci vuole un supplemento di fegato che sconfina
nella temerarietà brutale. Tsipras, a suo modo, deve cavar fuori da se stesso
un’energia e una sfrontatezza decuplicate rispetto a quelle congenite. Deve
oltrepassare se stesso, arrampicarsi sulle spalle dell’uomo e del politico che
fu, ritagliarsi una smisurata levatura di statista a cui lui stesso, per ora, non presta fede. Eppure
potrebbe farcela, perché è in momenti topici come gli attuali che dai limiti di
persone ordinarie si palesano le illimitate virtù di uomini straordinari. In
fondo, se è approdato all’incrocio dei venti del destino continentale, un
motivo ci sarà. Forse Tsipras saprà scoprire dentro di sé lo spudorato furore
di oltraggiare ciò che, nella declinante civiltà occidentale, è il Mito per
antonomasia, il Moloch sotto il quale la politica piega, tremebonda, i ginocchi:
la Finanza, la Borsa, i Mercati. D’altra parte, non ci sono alternative. Non si
può essere schiavi a gettone, servi della gleba a forfait, succubi a giorni alterni. Tsipras e i suoi sanno che chi
ciancia di dilazioni, piani di rientro, rateazioni, alleggerimenti pro crescita
sono solo i poliziotti buoni di un sistema cattivo. Quel debito non è
estinguibile per definizione e quindi, da qui all’eternità, gli epigoni del
Partenone dovranno sfiancarsi non per finanziare un welfare, supportare le
generazioni a venire e sostentare la comunità di appartenenza, ma per rifondere
ad anonimi creditori gli interessi sul prestito. Una sorta di Tirannia
dell’Usura, con le vecchine ravananti nel pattume a far da prefiche al feretro
di una democrazia defunta. Ergo, quando la brigata Kalimera ellenica urla “No
ai ricatti, non soccomberemo”, sta indicando al suo Masaniello l’unica via
percorribile: il default. Fallire e poi ricominciare. Dichiarare bancarotta,
rifiutarsi di onorare i debiti in essere e, contestualmente, una volta
scollinato il gran premio della montagna dell’improntitudine, annunciare al mondo
che la Grecia si riprende il futuro, esce dall’euro e torna a casa propria a
leccarsi le ferite. Ne pagheremmo lo scotto anche noi? Certo, quaranta miliardi
di euro buttati nel fosso, ma significherebbe aver finanziato, per una volta,
non l’ingordigia di Goldman Sachs, ma una sacrosanta rivoluzione con dividendi
eccezionali: una pietra di scandalo inimmaginabile, capace di mandare in
frantumi la Neurodeliri, cioè il regime
finanziocratico fondato sul debito. A Tsipras diranno che dietro il default c’è
la morte (è il ricatto retorico dei minus
quam eurofili). Se Alexis saprà smascherare il bluff e attaccherà al muro
il mostro, cioè la paura, si accorgerà che non è vero: la morte ce l’aveva già
in casa e si chiamava debito. L’unica via d’uscita è incenerirlo e riprendersi
la libertà.