giovedì 31 dicembre 2015

PER QUEST'ANNO NON CAMBIARE


PER QUEST’ANNO NON CAMBIARE

Pensierini per l’anno nuovo, anzi impegni, come d’uso. Però questo giro, almeno, cambiamo verso. Impegniamoci solennemente a non cambiare niente o, almeno, a non cambiare tutto. Teniamoci qualcosa di vecchio e non cambiamolo affatto: una nicchia, uno spazio, una riserva indiana del nostro tempo personale o delle nostre conoscenze, delle cose materiali o delle risorse immateriali, degli apparecchi tecnologici o degli animali da compagnia. Teniamoli così come sono. Facciamo la rivoluzione della manutenzione, la più letale per il Sistema: boicottiamo il cambiamento. Perché mai? In fondo, il cambiamento è il motore della vita, la natura della natura, l’irriducibile cifra dell’esperienza umana. Vero, ma non il cambiamento compulsivo e paranoico della nostra sbilenca civiltà. Oltre una certa soglia, il cambiamento uccide o, quantomeno, dà il mal di mare. Alzate l’asticella dei cambiamenti di un grado alla volta e, a un certo punto, ne avrete ottenuti  talmente tanti e tanto frequenti da mandare in tilt anche la più sofisticata delle macchine: il nostro cervello. Ecco come la matrice governa l’uomo: semplicemente lo ubriaca di mutamenti in maniera compulsiva e feroce. Tutto cambia a un ritmo così frenetico da trasformare le vittime del gioco in robottini paranoici sempre tesi ad agganciare, insieme alla ripresa, il prossimo giro di valzer, per paura di restare indietro. Tutto cambia alla velocità della luce: dagli interfaccia degli smartphone alle app nei palmari, dai cassieri nelle banche alle banche nei quartieri, dai bar sottocasa alle birrerie giù all’angolo, dai lavori precari ai coniugi provvisori, dagli amici episodici ai compagni intermittenti. Auto, stili di vita, sport, lavoro, passatempi, case, consulenti, religioni, credenze, valori, persino il sesso, se capita. Basta che si cambi perché cambiare non è più un diritto, è un dovere. Alcuni cambiamenti sono involontari, semplici appendici semoventi del mostro tritatutto, ma tanti altri no. Perché rinnovare ogni pochi mesi la schermata di un sito funzionante? Perché riprogettare da subito il modello di un portatile appena uscito? Perché spostare la sede di un qualcosa da qui a lì o assegnare l’esperienza di un qualcuno da un lavoro noto a un impiego sconosciuto? Perché limare la sagoma di una presa elettrica per adattarla a un buco differente? Al netto degli spostamenti inevitabili, dovuti a senescenza naturale, la gran parte di essi ha un solo scopo: renderci malfermi, insicuri, impauriti. Le microfratture nervose da stress provocate dalle novità sono un toccasana del carattere se patite nella giusta quantità: ci fanno uscire dalla zona di confort e crescere e diventare persone migliori. Ma se le crepe nel guscio dell’identità si diramano a gogò e ne frammentano la superficie a dismisura, il calcare si sbriciola e l’uovo si spappola, la 'massa' individuale si sfalda e quella collettiva di adegua. E non c’è massa più facilmente dominabile della massa disorientata. Ecco l’imperativo dell’Evo competitivo: non dobbiamo abituarci mai a nulla. L’abitudine sana e naturale che rendeva docili e pilotabili le vite dei nostri nonni, fatte di cose semplici (che a rammentarle ci sgorga ancora la lacrima) sono bandite in eterno. Non solo perché il progresso è inarrestabile e la tecnologia sempre gravida di news. C’è anche un aspetto perverso, e perversamente studiato, nel modo in cui un fenomeno inevitabile quale il cambiamento, è divenuto una somma di variabili ingestibili, funzionale alla manipolazione dei fattori. Noi siamo i fattori di questa operazione, i segmenti traballanti del disegno. Che, poi, dietro il disegno ci sia una matita e dietro la matita una mano e dietro la mano una mente, poco importa. I meccanismi di fanatica riproduzione della complessità non necessitano di registi occulti, si strutturano da sé, per inerzia. Si articolano in processi semicoscienti in cui il gomitolo di opzioni è così intricato e vasto e spesso da tramutarsi in una creatura bilanciata e sbilanciante che fagocita il casino delle vittime e lo riplasma in ordine per sé, che esige sacrifici e passività dai suoi membri per alimentare di energia e attività le proprie membra. Oggi, la matrice pretende quel tourbillon manicomiale di cambiamenti che fa arrivare la gente a sera suonata come un gong. Torniamo al Capodanno e, per quest’anno, scegliamo di non cambiare almeno qualcosa della nostra vita. Anche di modico o insignificante. Fosse pure un cellulare old style o una berlina dal leasing esaurito, un software del decrepito pc o un secolare gestore telefonico, lo sport fuori moda dei figli o la povera bestiola d’affezione, il tablet smaccato e consunto o le statuine monche del presepe. Qualunque roba va bene, purché sia una cosa, un’abitudine o una dimensione meritevoli dell’epiteto di vecchie. Salviamole, teniamocele, conserviamole, non buttiamole. Anche se minuscola, la miccia d’innesco del non cambiamento non va sottovalutata perché si replica, ben presto, in plurimi semi di stabilità rivoluzionaria, e si propaga per imitazione gemmando altri cocciuti guerrieri antisistema, i Neo più temuti dalla matrix: gente posata, padrona del proprio tempo, che va lenta anziché veloce, cammina anziché correre, consuma idee anzichè cose, cambia quando lo desidera e non desidera solo cambiare. Può nascere un’era nuova da una scelta (apparentemente vecchia) di renitenza alla leva del cambio, di diserzione allo psicolabile bisogno di ‘riforme’ che ci ha contagiati tutti come un virus. Stasera, davanti alla tele, ascoltando i discorsi di rito, appena un politico pronuncia la parola cambiamento o riforme facciamoci una grassa risata assaporando il nostro ribelle contagioso slogan: sorry, we do not want to change. No, grazie, non vogliamo cambiare. Noi restiamo qui, manteniamo la posizione, ci teniamo la vita.

Francesco Carraro

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domenica 20 dicembre 2015

NON TI SCALDARE



NON TI SCALDARE
Ma c’è un  business dietro la green brigade? Certo che sì, un business stratosferico, sufficiente a creare nei bilanci degli stati buoni e ossequienti alla dottrina di Al Gore buchi che, al confronto, quello dell’ozono è il foro di un calzino. Per dire, l’Australia, al fine di abbattere le emissioni globali di CO2 dello 0,0006 entro il 2020, spenderà 130 miliardi di dollari. Insomma, il terrorismo psicologico sul cambiamento climatico non è fine a se stesso, non ce lo instillano a gratis. Ha un prezzo molto salato che, ovviamente, pagheranno i bilanci delle nazioni virtuose a beneficio delle aziende private che, in modo lungimirante, pregustando ritorni a venti zeri, si sono messe in scia al mito collettivo del gobal warming e dei suoi sacerdoti facendosi trascinare come i cultori degli sci d’acqua da un motoscafo. In altri termini, un’intera platea di multinazionali ha già fiutato l’affare e si appresta a beneficiare dei contributi statali e degli investimenti pubblici che inonderanno il pianeta ben prima del paventato nuovo diluvio universale. Il che potrebbe anche essere una bella notizia se gli effetti ricadessero, a cascata, su un incendio vero. Ma se l’incendio è finto? Se, una volta riadattata l’intera cinghia di trasmissione dell’economia mondiale, ci accorgessimo che la temperatura continua a salire o che, addirittura, inizia a scendere a picco ben oltre i valori attesi, che ne sarebbe di tutti i fantastiliardi nel frattempo investiti? Puf, evaporati come gas serra in attesa della costruzione di un nuovo mito condiviso in grado di pascolare verso altri obiettivi le pecore del gregge. In tale contesto, è determinante chiedersi cosa può fare ciascuno di noi e l’unica risposta possibile è ‘approfondire’. Cioè andare a fondo delle notizie. Il sistema mass mediatico è concepito per veicolare news superficiali confezionate sotto forma di aspirine effervescenti. Le pillole hanno un effetto anestetico e, nel contempo, propedeutico. Ci abituano a introiettare determinate verità funzionali alle esigenze contingenti o strategiche della matrice. Così, senza accorgercene, finiamo per diventare dei portatori insani di supercazzole, tipo quella che bisogna impegnarsi tutti insieme per ridurre il riscaldamento globale. Quasi fosse scontato che c’è un riscaldamento globale in atto. Quasi fosse scontato che di questo riscaldamento siamo tutti responsabili in quanto membri della razza umana. In questa situazione è tutto scontato, tranne il prezzo che ci faranno pagare per risolvere un problema che, forse, non esiste.
Francesco Carraro
www.francescocarraro.com

AL GORITMI FALSATI



AL GORITMI FALSATI
Quando si toccano i mammasantissima della religione ambientalista o si sfiorano i fili d’alta tensione delle loro trame bisogna stare attenti. È molto facile restarne scottati e veder ‘congelata’ la propria carriera. Anche perché gli avversari truccano le carte con disinvoltura pur di sostenere il paradigma catastrofista che esige, a tutti i costi, un surriscaldamento della verità non indifferente. Sufficiente, quantomeno, a portarla a uno stato liquido e a piegarla alle esigenze del Pensiero Monopolista propagandato da leggendari pionieri del futuro come Al Gore. Quella che segue è una storia vecchiotta, di sei anni fa, ma vale la pena rispolverarla per far capire come funzionino le cose nell’entourage bollente dei climatologi allineati. Nel 2009, per mano di alcuni pirati informatici, vennero trafugate e rese pubbliche le e-mail degli espertoni della University of East Anglia, in Gran Bretagna. Eccone una favolosa, firmata da Kevin Tremberth del National Center for Atmospheric Research di Boulder, in Colorado: “Il fatto è che in questo momento non possiamo dare una spiegazione alla mancanza di riscaldamento ed è una finzione che non possiamo permetterci”. Alla faccia di Galielo, verrebbe da dire. Della serie, la realtà non si adegua al nostro paradigma quindi bisogna cambiare, in qualche modo, la realtà. Phil Jones, suo autorevole collega, si era spinto oltre e, con un pizzico di pragmatica intraprendenza anglosassone, aveva confessato al Dr. Micheal Mann della Pennsylvania State University di aver utilizzato un ‘trick’, un truc per dirla all’italiana, al fine di nascondere l’afflosciarsi dei gradi del termometro dai primi anni ottanta in poi. Ancora, l’esimio luminare ha ammesso che uno degli strumenti per misurare e dimostrare l’inarrestabile innalzamento della temperatura erano i cerchi dei tronchi degli alberi. Però, il legno, dai favolosi Sexties in poi, ha smesso di fare il suo porco lavoro e di avvalorare le tesi degli eco estremisti. Ecco allora che la ‘comunità scientifica’ ha smesso, semplicemente, di avvalersi della ‘consulenza’ botanica dei fusti arborei per convalidare le proprie tesi. Così procedono le vestali della green brigade. Laddove i riscontri oggettivi e strumentali smentiscono, anziché applaudirlo, il vangelo del premio Nobel Al Gore, i partigiani del sol caliente dell’avvenire si tengono Al Gore e mandano in soffitta i riscontri oggettivi.  Anche perché, in giro per il mondo, di ricercatori indipendenti (e quindi non sovvenzionati né pubblicizzati) ce ne sono a pacchi. E alcuni di loro, russi per la precisione, sostengono che il contributo dell’uomo al surriscaldamento climatico è pari alla proverbiale goccia nel mare e che innalzamenti di temperatura, anche repentini, ve ne furono a iosa in epoche storiche non sospette quando i dinosauri non avevano il Porsche Cayenne o quando i romani non vantavano alcun distretto industriale. Addirittura, certi consessi scientifici sostengono che sia alle porte non già l’età del ‘fuoco’, ma una nuova era glaciale. E allora? Significa che non esiste un problema inquinamento? No, tutt’altro. Non v’è dubbio che l’uomo abbia una grave responsabilità nel modo in cui sta maltrattando il pianeta anziché averne cura. Tuttavia, questo non spiega perché si debba allestire una impalcatura di menzogne piena di crepe per giustificare una teoria che fatica a stare in piedi. Ma forse, a ben pensarci, si spiega sin troppo bene.
Francesco Carraro
www.francescocarraro.com

GRAFICI PUBBLICITARI



GRAFICI PUBBLICITARI
Ivar Giavier, come Josè Mourinho, non è un pirla. È un premio Nobel per la fisica il quale si è recentemente dimesso dall’American Phisical Society (rassemblement di scienziati statunitensi) perché si è accorto di non poter più esprimere liberamente il proprio pensiero contro la Fede Unica dell’AGW. Poi ci si è messo anche il Wall Street Journal che non è la Gazzetta di Roccacannuccia. L’autorevole testata ha dato voce, con lodevole coraggio, alla presa di posizione di sedici scienziati i quali hanno candidamente ammesso che, due punti aperte virgolette, la CO2 (l’anidride carbonica) non è inquinante e che “ciò non deve sorprendere dal momento che piante e animali si sono evoluti quando la concentrazione di CO2 era dieci volte maggiore di quella di oggi”. Per aver sostenuto questa tesi anti-paradigmatica rispetto al dogma trinitario dell’AGW, il dottor Chris de Freitas, nel 2003, ci rimise la cadrega di opinionista della prestigiosa rivista Climate Research. Ma c’è di più e di peggio, tenetevi forte. Il blogger Steven Goddard  si è preso la briga di spulciare ed esaminare i grafici dei record di temperatura superficiale degli USA pubblicati dal National Oceanic Atmospheric Administration (NOAA). Ebbene, il trend climatologico degli ultimi decenni è stato semplicemente taroccato sostituendo i dati reali con altri ritoccati al computer oppure omettendo una parte delle misurazioni in modo che il grafico esibito mostrasse solo una linea in ascesa e non quella in discesa. Un trucco da maghetti della domenica, una tipica forma di ‘ristrutturazione’ mentale. Ricorda un po’ le drittate di Galliani quando, qualche anno fa, di fronte alla inarrestabile discesa del Milan dall’empireo, per dimostrare comunque la superiorità del team rossonero impiegava giochi di prestigio tipo: “Siamo comunque la compagine con  più punti negli ultimi tre anni o più titolata negli ultimi cinque”. In altri termini, se il quadro che hai davanti non ti piace, allarga o restringi la cornice. Poco male se lo fai con la squadra del cuore, molto grave se questo asso te lo giochi con le sorti dei miliardi di abitanti di questo derelitto pianeta.
Francesco Carraro
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STEMPERATURE



STEMPERATURE
Un eccellente articolo di Enzo Pennetta (laureato in biologia e docente di Scienze naturali) del 12 ottobre 2014 mette il dito su una piaga che brucia parecchio sulla pelle dei membri della green brigade. Una roba forte che ci consente alcune riflessioni sulle peculiarità del metodo scientifico cui, nel Seicento, Francesco Bacone ha aperto la strada che Galileo Galilei ha poi spalancato. La caratteristica prima della scienza è di essere un sapere falsificabile basato sull’esperimento. Esattamente il contrario di come la scienza stessa viene oggi descritta e cioè alla stregua di una raccolta di tavole della legge universali,  fonti di ogni certezza non discutibile. Col metodo scientifico non si scherza perché espone i fondamentalisti al rischio del ridicolo: tu fai un’ipotesi, poi esegui degli esperimenti e, laddove questi la confermino, la teoria diventa un paradigma provvisoriamente accettato in attesa di essere smentito. Ebbene, Pennetta ci fa notare come il paradigma del global warming, uno dei dogmi sacri dell’Evo Competitivo, cominci a traballare sotto i colpi spietati della realtà sperimentale. Insomma, per dirla in breve, il riscaldamento sta rallentando e contravviene ai modelli catastrofici elaborati dai chierichetti dell’Idea. Le temperature, infingarde e lazzarone, si sono prese una pausa caffè nonostante la concentrazione del diabolico CO2 sia nel frattempo aumentata. Cosa accade in tali casi? Il vero scienziato non va in crisi, indaga per capire dove lui ha sbagliato nell’interpretare la realtà. Lo pseudo scienziato, invece, si strappa i capelli e cerca di convincere la realtà a piegarsi ai suoi desideri. Un po’ come ai tempi dell’imperante modello tolemaico, allorquando le smentite ‘solari’ alla teoria eliocentrica venivano bypassate dando un’aggiustatina al circuito delle sfere celesti. Nel caso dell’AGW (l’antropic global warming) accade più o meno lo stesso con sviluppi esilaranti. Ecco le spiegazioni fornite dalla scienza ufficiale all’inspiegabile flessione del mercurio nei termometri: 1) il calore in difetto si è nascosto negli oceani, anche lui bisognoso, evidentemente, di una vacanza al mare per smaltire lo stress; 2) se la temperatura si ostina a non adeguarsi al paradigma, sbarazziamoci della temperatura e troviamo degli altri indicatori dello stress patito da  madre Gaia per effetto delle attività umane. Geniale. Un po’ come se gli avversari in tonaca del buon Galileo, per confutare le sue dimostrazioni della teoria geocentrica, avessero deciso che di fare a meno della Terra pur di assecondare Tolomeo. Forse, un’idea ancora migliore sarebbe cominciare a fare a meno di nutrirsi delle paranoie dei seguaci dell’AGW.
Francesco Carraro
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CI HO DUE PANZANE



CI HO DUE PANZANE
La recente conferenza di Parigi sul clima offre il destro per due o tre pensierini. Per esempio, c’è una nuova categoria di fondamentalisti che non ha connotati religiosi, ma è più tosta e cazzuta di un partigiano dell’Isis. Se vi imbattete in un componente della green brigade (chiamiamola così per comodità) lo riconoscete da due cose: una fede granitica, proprio come i seguaci di un mullah, e una misericordia selettiva, proprio come l’anima nera di chi piange di gioia per i morti di Parigi. Stiamo parlando dei mujaheddhin dell’ecofondamentalismo globale con un solo obiettivo nella vita, e cioè abbassare quanto prima i gradi della temperatura terrestre, a qualunque costo. Se gli proponi di elevare di un cincinin i gradi del loro QI ti guardano storto e ti stordiscono con un monito pararenziano, tipo: “Il mio QI conta molto meno della febbre di Gaia”. Dove Gaia, per chi lo ignorasse, sta per Madre Terra, una sorta di Potnia arcaica, o di Magna Mater ellenica cui tutto va sacrificato  (esseri umani compresi) pur di combattere il fottuto global warming. Direte che la faccio facile, che il fondamentalista islamico è mosso da una fiducia criminale nell’irrazionale, mentre l’adepto di Gaia è sostenuto da una solida confidenza con la scienza. Mica vero. Quello del riscaldamento globale di natura antropogenica (cioè causato dagli umani brutti, cattivi e soprattutto sporchi) è l’esito di  un processo  di natura mitopoietica, è un mito ottenuto in provetta unendo una verità empirica (l’innalzamento del calore planetario) con una sconclusionata conclusione (l’attribuzione del fenomeno a una matrice umana). In altre parole, la leggenda metropolitana del global warming si regge su un sillogismo che Aristotele avrebbe segnato con doppia matita rossa. Premessa maggiore: la terra si sta scaldando; premessa minore: il CO2 emesso dai manufatti antropici genera calore; conclusione: il CO2 umano sta surriscaldando il pianeta. Bene, su questa gigantesca falsificazione linguistica si regge la mitologia che spopola nelle sale piene del palazzo di vetro dell’ONU e nelle zucche vuote dei leaders di stato. Che di una balla si tratti non lo diciamo noi, ma, tra altri seri accademici, lo scienziato Antonino Zichichi, il quale, da presidente della World Federetion of Scientists di Ginevra, nel 2007 affermò che l’Uomo incide sui cambiamenti climatici per una percentuale pari a zero e “sulle anomalie metereologiche  al massimo un 10%, ma resta il 90% che è assolutamente naturale”. “Ammappete oh!” dirà l’ecofondamentalista, sistemandosi il neurone nel capino: “ma chi gli ha dato la patente a ‘sto scienziato?”.
Franesco Carraro
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