sabato 28 novembre 2015

TUTTOSPOT



Vi ricordate il famoso spot con protagonista Gandhi, che ha caratterizzato la campagna istituzionale 2004 di Telecom Italia con la regia di Spike Lee aggiudicandosi il premio "Best Ever Forever"? Non ha fatto solo epoca. Ha fatto scuola. Provate a contare quante volte vi imbattete in una clip di propaganda di qualsiasi tipo di marca che ingloba concetti, valori, modelli eminentemente non commerciali. Siamo invasi da rutilanti esempi di pubblicità ‘progresso’ che, con uso sapiente della musica giusta, delle parole appropriate, dell’estetica cinematografica adatta, sollecitano in noi le emozioni un tempo appannaggio degli oppositori del Sistema. Essi fagocitano tematiche della natura più varia: culturale, ideale, religiosa, artistica. Tutte, rigorosamente, evocative di sogni, categorie, progetti esistenziali non commerciabili. E tutte, sistematicamente, utilizzate per spingerci a fare commercio, cioè mercificazione, di ogni aspetto della nostra vita. Una volta, la pubblicità puntava soprattutto sugli istinti, subliminali se non inconsci. Così, la bella ragazza in costumi discinti accanto all’ultimo modello di berlina si sovrapponeva all’auto veicolandone, insieme alle prestazioni meccaniche ed elettroniche, anche un mimetico sottotesto dove la seduzione sensuale e l’illusione erotica giocavano un ruolo imprescindibile nell’indurre all’acquisto. Oggi, quell’approccio è superato, appartiene a un format grezzo e volgare delle tecniche di manipolazione di massa. Le grandi Marche della competizione globale hanno completato l’opera di colonizzazione della nostra psiche. Ci nutrono persino di quei percorsi favolosi e immateriali già prerogativa dei capolavori della letteratura universale o dei messaggi dei guru della metafisica o della ricerca spirituale. In altre parole, ci offrono, liofilizzati in pillole di pellicola fast food, quello che, in passato, dovevamo conquistarci attraverso ore di laboriosa applicazione. La strategia, a ben pensarci, è geniale ed è consistita nell’impiego dei frutti del nemico per eccellenza della matrice consumistica (il libero pensiero disinteressato) per avvelenare definitivamente i pozzi di conoscenza e consapevolezza cui  eravamo stati educati ad abbeverarci. Ora, nel ritmo sincopato e tambureggiante dell’era più stressata della storia, ci è stato tolto il tempo della meditazione, ma ci vengono comunque messi a disposizione i suoi prodotti concentrati in chicchi di caffè pronta cassa. Ci tengono svegli a sufficienza per consumare, ma non abbastanza per capire. Il regime si è vaccinato contro i virus che lo  minacciavano e ne ha fatto degli anticorpi da somministrare alle sue  vittime. Ciò che vi era di Eterno nelle tradizioni antiche servirà ad eternare la macchina che le ha uccise.
Francesco Carraro
www.francescocarraro.com

VOTI A PERDERE



La stessa matrice che produce, a stampo, i maestri inani, sforna anche ministri come Poletti Giorgio, responsabile del dicastero del Lavoro, il quale si è messo sulla scia di illustri predecessori, ad assecondare (melius, a compiacere) i pruriti e le voglie dell’Evo Competitivo. In precedenza, i nostri giovani si erano già beccati l’epiteto di bamboccioni. Oggi je toccano le idee dell’ex presidente di Legacoop, autentici gioielli della corona (di virtù pedagogiche) di una scuola allineata ai tempi. Eccone alcuni: “meglio finire l’università a 21 anni con voto 97 che tirarla di lungo con voto 110 e lode”. Oppure: “la storia secondo cui c’è un posto dove si va a lavorare, la fabbrica, è finita. Il lavoro non si fa in un posto: il lavoro è un’attività umana, si fa in mille posti”. E, già che ci siamo, rottamiamo anche il concetto obsoleto di straordinari e l’idea che lo stipendio debba essere una variabile proporzionale al tempo e alle energie profuse. Della serie, il fatto che lavoriate troppo non è un problema mio, conta la produttività, quindi olio di gomito, meno pippe culturali, stop al mito del voto selettivo di eccellenza. La macchina della produzione uber alles. In un mondo corroso dall’ideologia del PIL come si fa a eccepire qualcosa? Ma Poletti, poverino, ammette pure che non è farina del suo sacco. Lui si limita a riportare le osservazioni che gli fanno quotidianamente quelli che “si occupano di ricercare e selezionare le persone per le imprese del nostro paese” e “i giovani che fanno esperienze internazionali”. Come a dire, nell’ordine, le due categorie di vittime privilegiate del villaggio globale: gli head hunter che gli procacciano la servitù e la servitù che si adegua alle forme, ai luoghi e alle esigenze della struttura organizzata e finalizzata a spremere il capitale umano. I ministri oggi auscultano i borborigmi della matrice e li traducono in proposte funzionali ai suoi desideri.  Ergo, non è colpa del ministro. Poletti, alla pari dei colleghi, non si situa a monte, ma a valle dell’ordine di cose vigente. È un collettore dei bisogni prioritari dei Mercati, cioè dei Signori incontrastati del terzo millennio. Dunque, placido e paciocco, col suo viso rassicurante da Giovanni Rana dell’economia mondo, aggiunge: “anziché schierarsi, come spesso accade nel nostro Paese, tra partigiani del pro e del contro, si provasse a sviluppare un confronto utile a fare insieme un passo in avanti in direzione della modernizzazione del Paese e nell’interesse dei nostri giovani”. Avete un senso di déjà vu, di déjà entendu? Tranquilli, è normale. Tutti i nostri leader, oggi, chiedono di non schierarsi, di non dividersi, di non opporsi, ma di lavorare insieme, uniti, per la modernizzazione. Questa è l’epoca dove opporsi non è neppure difficile, è impossibile. Anzi, ridicolo. La contestazione, la protesta, l’anticonformismo intelligente sono banditi, sono anti-moderni. C’è un’unica cosa da fare, un solo progetto di vita all’orizzonte: consumarsi di lavoro per far ripartire i consumi.
Francesco Carraro
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INANI



L’anno scorso, nella scuola di un comune del vicentino, il concerto natalizio prevedeva una compilation di canzoni arabe e africane che hanno marginalizzato in un canton (in un angolo, per dirla alla veneta) le canzoni e gli stornelli di matrice cristiana. I casi di insegnanti dall’iper zelo multietnico e pluriculturale che staccano i crocifissi dai muri, inibiscono il segno della croce, tolgono dal presepe il bue, l’asinello e persino il bambinello si moltiplicano. E disorientano molti poveri cristi di estrazione non islamica né animistica né induista né tantrica. Gente nostrana, insomma, ostinata nel coltivare due ingenui convincimenti. Primo: che il rimescolamento e la centrifuga di costumi, credenze e valori generato dalla globalizzazione non debba significare abiura delle proprie idee sull’aldilà e dei propri costumi nell’aldiqua. Secondo: se molti dei forestieri ospitati in casa nostra appartengono a etnie o religioni che ci impediscono di professare la nostra religione in casa loro, noi possiamo, quantomeno, esigere di veder rispettati da loro i nostri simboli in casa nostra. Non è complicato come ‘patto educativo’. È un’alleanza pedagogica, detto in termini forbiti accessibili anche agli educatori e formatori brulicanti di iniziative nelle scuole frequentate dai nostri figli.   Eppure, la classe docente del Paese, in molti casi, non ci arriva. Non sembra arrivarci. Si sforza, ma non ce la fa. Quindi, di fronte alla prepotenza di un’Idea e di una Fede che si traducono con submission (sottomissione è la traslazione letterale del termine Islam), di fronte all’invasione di altre fedi, le più lontane e diverse da quelle di un paese cristiano come l’Italia, i prof scelgono, appunto, la sottomissione e la diversità. Perché accade? Non è una questione solo di fede, quanto piuttosto e soprattutto di cultura. Abbiamo seminato per decenni ignoranza e subcultura, abbiamo ciecamente aderito a un progetto di mondo ‘aperto’ privo di qualsiasi riferimento valoriale, etico, culturale in senso lato e, perciò, anche religioso. Insomma, pur implementando a dismisura i corsi, i diplomi di laurea, le pastoie burocratiche, i saperi specialistici che i nostri insegnanti dovevano appuntarsi al petto come medaglie al valore, li abbiamo svuotati di ogni supporto della nostra straordinaria Tradizione (con la T maiuscola), fatta, anche, di greci e latini ‘inattuali’, anche di umanisti troppo ‘classici’, anche di una fede troppo ‘semplice’ e antica. E così, destrutturando il pieno della nostra ricchissima cultura abbiamo edificato il vuoto di una nuova cultura aziendalistica, pseudo sociologica, infarcita di test a risposta multipla e di teste a razionalità minima. Un tempo ci definivamo ‘nani’ sulle spalle di giganti (secondo la lezione di Bernardo di Chartres). Oggi, molti dei nostri maestri sono nani e basta. Peggio, sono inani, cioè vani e inutili. Vuoti come le effigi delle statue da giardino. E qualcuno, prima o poi, doveva arrivare a riempirli.
Francesco Carraro
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G VENTI DI GUERRA



Forse la vera fuga di cervelli non riguarda l’Italia. Magari riguarda l’intera comunità internazionale. I cervelli fuggono dal pianeta terra approfittando del passaggio occasionale di qualche astronave aliena oppure vengono assorbiti, per osmosi, da dimensioni più intelligenti della nostra (devono essercene miliardi di miliardi, là fuori). Il dubbio ci assale ogniqualvolta si riunisce il G20. Il G20 è un forum d’elite semovente, attivo dal 1999. Vi fanno parte i ministri delle finanze e i governatori delle banche centrali dei paesi più industrializzati. Con l’aggiunta dell’Unione Europea. Ahia! Che sia questo il problema? È noto che la materia grigia è refrattaria all’Unione come il diavolo all’acquasanta. Ad ogni buon conto, il G20 venne istituito un attimo prima dell’avvento delle più gravi crisi del dopoguerra: politico-sociali (11 settembre), belliche (Irak, Afganistan e Nord Africa) ed economiche (da Lehman Brothers in giù). Il suo scopo istituzionale era di garantire meno crisi e più governance. E già questo dovrebbe metterci in allarme. O i membri di questo cenacolo interplanetario di emisferi sono più sfortunati di Paolino Paperino oppure abbiamo sovrastimato il numero dei loro neuroni. Sia come sia, il consesso esprime il meglio del meglio del meglio di ciò che può offrire, in termini di governo dei processi complessi, il mondo sviluppato. Quello di cui facciamo parte, dove tira più un PIL in ascesa di un carro di buoi. Ebbene, lorsignori, riuniti ad Antalya per ragionare sui fatti di Parigi, dopo ore e ore trascorse a spremere le meningi coadiuvandosi con tisane di fosforo e crostini al filetto di volpe, hanno emesso il verdetto: “Il terrorismo non è e non può essere legato a nessuna religione, nazionalità, civiltà o gruppo etnico”. Risolto, in un amen, il problema. Gli jihadisti che urlano ‘Allahu Akbar’ sono degli atei en travesti cui, a singhiozzo, scappano involontarie preghiere. Il G20, però, non si fermerà qui. Ha già in canna altre rivelazioni fenomenali. Nell’ordine: “I kalashnikov non sono e non possono essere legati a nessuno degli attentati di Parigi”. Oppure: “Ciascuno degli attentati di Parigi, preso isolatamente,  non è e non può essere legato all’isis”. O, ancora: “L’Isis, lo Stato Islamico, non è e non può essere legato in alcun modo ad alcuna concezione dell’Islam”. Non riescono più a fermarsi, capite? Sono pagati per pensare e si rifiutano di rubare lo stipendio. Se Archimede fosse ancora vivo, conierebbe uno slogan aggiornato ai tempi: datemi un idiota e vi addormenterò il mondo. Con un post scriptum: “L’intelligenza non è e non può essere legata  a nessun componente del G Venti”.
Francesco Carraro
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LA MACINA DA MULINO



È uscito The visit,  il nuovo film di Manoj Night Shyamalan, e non abbiamo resistito. Dovevamo vederlo subito, perché Shyamalan sta al genere mistery nel cinema come Stephen King sta al genere horror nella letteratura. Trattasi di un regista di culto per gli appassionati. E quando sei appassionato di un genere, il tuo autore di riferimento non lo giudichi, perché non serve. Lo leggi, lo vedi, lo mediti, cerchi di risalire i tortuosi percorsi in grado di innescare nel genio artigianale di un tessitore di trame  la miracolosa scintilla di una piccola o grande storia. Ma veniamo al dunque. The visit non è un capolavoro. Non raggiunge i vertici di tensione e capovolgimento delle premesse propri de Il sesto senso e neppure il fascino bucolico e profetico di The Village. È un film appena sufficiente o forse colpevolmente insufficiente. Però l’idea dei nonni cattivi, tenutari di un casolare di campagna dove accedono gli ignari nipotini preadolescenti non è da buttare. Quando il male assume le forme dei congiunti più intimi oppure di soggetti buoni per definizione, la sua carica distruttiva è amplificata, in un modo o nell’altro. Chi ha visto il film Il giro di Vite, o letto il racconto di Henry James da cui fu tratto, può capire cosa intendo. Eppure, se andrete a vedere The visit uscirete impressionati non dai vecchi psicotici epigoni della strega buongustaia di Hansel e Gretel, ma dalle vittime, i due ragazzini e dai loro caratteri: odiosi, fatui, finti, e, soprattutto, innaturalmente adulti. Un tredicenne con lo sguardo sgamato e malizioso e la passione per la peggiore pseudo letteratura di sempre: il rap; una quindicenne dall’eloquio accademico che sforna a getto continuo considerazioni da scafata opinionista tivù. Insomma, il dramma di The Visit non è che i nonni sono troppo crudeli e psicolabili per essere dei veri nonni. La vera tragedia del film è che i bambini sono troppo strutturati, colti, artificiosi per essere dei veri bambini. Purtroppo, questo non era un obiettivo del regista e quindi non è un risultato da ascrivere a suo merito. Shyamalan non voleva spaventarci con i mocciosi, ma con i vecchi. Invece, gli è riuscito il contrario, ma non è colpa sua. Il suo istinto di maestro del mistery ha scattato la spietata polaroid di un’epoca attraverso la trama di una gothic novel postmoderna. Morale della favola: ci siamo persi per strada i bambini, questa modello di convivenza (in)civile li ha inghiottiti e trasformati in orribili riproduzioni dei peggiori difetti di noi grandi. Resta un tremendo sospetto. Forse, la nostra società ha collettivamente inverato il più grave dei peccati, quello per cui qualcuno, illo tempore, invocò, per il reo, la pena della macina da mulino in fondo al mare.
Francesco Carraro
www.francescocarraro.com