sabato 20 febbraio 2016

SPECCHIO DELLE MIE TRAME



SPECCHIO DELLE MIE TRAME
La ridicola ossessione per la competitività e la crescita ha fatto un passo in avanti significativo. Ora non è più sufficiente indebitarsi per mantenere ben oliate le giunture della macchina del consumo. Bisogna anche applaudirla e dirle quanto è bella e brava. In buona sostanza, siamo approdati a un nuovo livello del videogame da psicolabili in cui ci hanno rinchiusi. Agli attori virtuali, cioè noi, è richiesto un surplus di asservimento che non passa più solo attraverso la sollecitazione delle brame e dei bisogni della massa, ma esige che la massa dia i voti (dei bei voti!) a chi le fornisce la roba di cui essa si intossica. Fino a qualche tempo fa eravamo tutti ossessionati da quel fenomeno che consiste nel calling, nella chiamata telefonica, ad ogni ora del giorno e ad ogni giorno della settimana, notturni e festivi inclusi, con la quale un povero disgraziato, ma ben addestrato, ci sollecitava ad acquistare un bene, a firmare un contratto, a cambiare un operatore. Servizio a domicilio ideale, equivalente a quello reso dalle mani esperte di un pastore alle mammelle esauste di una vacca: mungere il più possibile, fino all’ultima goccia immaginabile, di fluido vitale. Il fluido, nell’epoca del trionfo dell’economico sul politico e sull’umano, è, va da sé, il denaro. E il denaro serve alla matrice come il latte a un bambino. In entrambi i casi, favorisce la crescita. In quelli disperati, come il nostro, dicono la faccia ripartire. Ora, però, le telefonate sono raddoppiate. Le aziende non chiamano più solo prima, per proporti un acquisto. Chiamano anche dopo, per sapere se ti è piaciuto e quanto e ti rubano  un quarto d’ora per rispondere a questionari rigorosamente anonimi volti a testare la qualità dell’erogatore, né più ne meno come le dita bucoliche tastano la consistenza dei capezzoli di una mucca. Quindi, non solo dobbiamo cedergli i nostri soldi in cambio di cose spesso superflue, quando non inutili o dannose. Adesso, vorrebbero pure che gli fornissimo, a gratis, minuti del nostro tempo per titillargli l’ego. Nota bene: minuti di quello stesso tempo che loro ci dedicano esclusivamente previo ritorno di cassa. Perché il tempo è denaro e loro lo sanno benissimo, ma se lo dimenticano giusto quando hanno bisogno del prossimo per una lucidatina alla vanità della casa. Una logica c’è. La competitività si regge sulla cosiddetta eccellenza che significa sopravvivenza darwiniana del migliore a discapito di tutti gli altri. Siccome le manipolazioni pubblicitarie fanno sempre meno presa, ecco il colpo di genio: affermare, forti di un sondaggio ad hoc, che gli stessi consumatori hanno premiato la ditta come la più gnocca del reame. Il circolo vizioso è completo e il manicomio ormai pieno. Solo posti in piedi. A proposito, vi chiamo domani per sapere se il pezzo è piaciuto.
Francesco Carraro
www.francescocarraro.com

QUEL PICCOLO GRANDE AMORE



QUEL PICCOLO GRANDE AMORE
Claudio Baglioni, uno dei più straordinari talenti del panorama cantautorale italiano, ha dato alle stampe un libro, Inter nos, che è una silloge dei suoi post su facebook dell’ultimo lustro. L’uscita della raccolta ci dà lo spunto per una riflessione sul tema del talento letterario, della inclinazione artistica e della forza bruta necessaria per assecondarla senza cedere alle pressioni delle mode. Il fenomeno Baglioni nasce, cresce, si sviluppa e poi, inaspettatamente, inaridisce, si avvita su di sé  e implode per una di quelle maledette involuzioni che toccano in sorte, a volte, anche ai grandi. Fino a tutti gli anni ottanta, oseremmo dire fino all’album Oltre, ma non oltre, salvo episodici sprazzi di riconquistata facilità e felicità compositiva, Baglioni ha lasciato ai posteri dei testi inarrivabili. Se prescindiamo dalla musica e stiamo alle parole, e se abbiamo una minima cultura di prosa e poesia del Novecento nonché sufficiente autonomia critica per sottrarci alla dittatura dei cliché, dovremo ammettere che Baglioni è stato anche, se non soprattutto, un poeta. La sua vena ritrattistica, il suo tocco naive e la sapienza nell’animare scorci di quotidiano filtrandoli attraverso l’uso calibrato del verbo, saranno un giorno rivalutati come pezzi di lieve bellezza. Baglioni parlava delle cose con termini desueti, e perciò freschi e vitali, con immagini di inusitata potenza, e perciò letteralmente, e letterariamente, immortali. Questa sua prodigiosa fertilità creativa è, in fondo, la riproduzione pragmatica della teoria  estetica crociana: intuizione che si fa espressione. Senza intuizione non c’è espressione formale che tenga. Senza adeguata veste formale, l’intuizione è mero sfogo poetico. Per questo, i poeti e gli autori sono così rari e preziosi. Essi coniugano due momenti che, nell’uomo normale, sono irriducibilmente separati. Sono pontefici dell’essere e congiungono la sponda della realtà con quella, altrimenti inattingibile (salvo atti di fede), del mistero e dell’altrove. Eppure, a un certo punto del suo percorso artistico, Baglioni smette di produrre quel tipo di poesia. Getta alle ortiche l’intuizione e si focalizza sull’espressione fine a se stessa, sulla ricercatezza semantica e linguistica, sull’ossessione per il calembour e il gioco di parole, sulla carta della scatola, anziché sul regalo. Ecco il Baglioni degli ultimi vent’anni, meritoriamente preso da iniziative sociali, tentato dalla sirena del consenso alto, sedotto dal bisogno di essere riconosciuto come uomo impegnato prima che come poeta ispirato. Fine del Baglioni che sondava aldilà del velo per tradurci in gemme poetiche il materiale inerte e livido della cronaca, amorosa e non. Inizio del Baglioni opinionista, noioso interprete di un’agenda morale, anziché visionario cantore di verità inaccessibili alla ragione. È come se il nostro avesse perso il dono che lo privilegiava, vittima delle pur fascinose malie della lingua. Sennonché, la lingua, con gli scrittori, è traditrice come e quanto può esserlo una bellissima dea. Li segue  ciecamente se, nell’atto creativo,  ci mettono se stessi, la loro specifica e non replicabile cifra; volta le spalle quando essi la piegano all’altrui  concetto, alla  qualunque pubblicistica del proprio tempo. Allora, la dea lascia loro  il simulacro vuoto delle vesti, ma li priva dell’oro vivo della sua nudità. Un autore russo contemporaneo la metterebbe così: smettila di voler essere il primo, punta a diventare l’unico. Baglioni è diventato il primo al prezzo di perdere ciò che lo rendeva davvero unico.
Francesco Carraro
www.francescocarraro.com

DUEL



DUEL
Nel duello all’O.K. Corral tra Renzi e Monti, colpisce un aspetto contraddittorio e intrigante. E non è il suo esito. Che ci siano un vincitore e un vinto è del tutto evidente. L’ex premier ne è uscito con le ossa rotte, umiliato coram populo dal pischello di provincia. Il premier attuale ha trionfato, forte di quella sicumera non sfidabile, di quel piglio smargiasso e di quella volpina disinvoltura nell’abuso delle tecniche retoriche che Monti ha assaggiato sulla propria pelle come altri prima di lui. Eppure, non ci devono  interessare tanto i fini e i profili dei protagonisti della tenzone, quanto lo svolgimento del match. Se esaminiamo le mosse di questa fulminea partita a scacchi, ci accorgeremo che Renzi ha vinto una battaglia per la stessa ragione per cui perderà la guerra. Il presidente del consiglio ha riportato un trionfo tattico, ma una disfatta strategica. È probabile che Monti e i suoi supporters, pur soccombenti sul piano dialettico, stiano lucidamente godendo dello scacco matto cui è destinato il capo del governo. Sia ben chiaro: Renzi è stato sublime nel capovolgere gli affondi montiani ritorcendoli contro il suo autore. Tu mi accusi di non combattere l’evasione? Io ti snocciolo i miei    record nel recupero del sommerso. Tu mi critichi sul rispetto dei vincoli di bilancio? Io ti spiattello un rapporto deficit/pil molto migliore del tuo. Tu mi provochi sulla crescita? E io me te magno con la statistica. In definitiva, Renzi ha prevalso non perché ha contestato gli assunti di fondo della ramanzina di Monti, ma perché li ha demoliti sul suo stesso terreno. L’uomo ha combattuto il conflitto sbagliato con le armi giuste. Se avesse messo in discussione il campo da gioco e le sue demenziali regole, sarebbe stato fatto a pezzi  dai rottweiler dell’europeamente corretto. Invece, rivendicando i risultati della sua abilità personale si è guadagnato il diritto a capitanare la squadra per un  tempo supplementare  in un palazzetto dello sport irrimediabilmente corrotto. La tattica di corto respiro del premier ha funzionato, ma è la medesima che lo condurrà al game over.  Ossequioso alle regole di Monti, egli si è condannato alla sconfitta futura. Proprio  nel momento in cui riportava sul rivale un effimero successo certificato dagli standard ottusi di quelle stesse regole. Delle due, l’una. Se Renzi starà ai patti, non avrà mai la forza di realizzare i grandiosi disegni di cui la sua smisurata ambizione lo fa ritenere capace e la gente lo ricorderà come ora lo giudica: tutta chiacchiera e distintivo. Se, al contrario,  mai trovasse  il coraggio di denunciare le regole (anziché rispettarle)  e di intraprendere la piccola via del  riscatto sovrano, finirebbe bucherellato da una mitragliata di spread. Per questo, Monti ha vinto anche se ha perso e Renzi ha perso anche se ha vinto. Gli unici che hanno perso e basta sono gli italiani.
Francesco Carraro
www.francescocarraro.com

BEATI I MITI



BEATI I MITI
Ora concentriamoci su Monti. Nella sua intemerata contro il ragazzino scapestrato e poco urbano, contro il vassallo villano, irriguardoso nei confronti della Commissione regnante, il professore ha elargito alcune perle preziose della mitologia comunitaria. La mitologia, come noto, è una forma, rispettabile e affascinante, di spiegazione della realtà. Su corposi e variopinti apparati mitologici si sono rette  le più antiche civiltà, quantomeno fino alla frattura rappresentata dagli esordi della filosofia greca. La Grecia rompe con il mito perché lucida il genio della lampada chiamato ragione. Gli abitatori del Peloponneso, della Ionia, della Magna Grecia smettono di credere nelle panzane tramandate perché si sforzano di far lavorare la materia grigia aldilà della suggestione delle fole. Nell’evo competitivo attuale, il processo si è invertito: stiamo gradualmente, e con rapidità esponenziale, abbandonando l’eredità dell’era dei lumi per risprofondare tra le braccia accoglienti di altre mitologie, aggiornate ai tempi. Nel nostro caso, esse si nutrono, come ogni assemblaggio di credenze irrazionali, di alcuni postulati ingannevoli in grado di orientarci nell’azione. Per meglio dire, di orientarci all’Unione. Monti ha rimpolpato il suo breve e incisivo intervento con uno di tali miti, quello degli italiani fuorilegge e lazzaroni, evasori compulsivi, causa del debito pubblico ben noto e stigmatizzato dalla Commissione Etica Europea. Il bocconiano ci ha risparmiato la bubbola parallela, quella secondo cui abbiamo vissuto per anni al di sopra delle nostre possibilità indebitandoci come ludopatici in crisi di astinenza. E di ciò va ringraziato. Ma va comunque demistificata l’altra polpetta al cianuro del suo intervento. Per farlo, è sufficiente ricorrere al metodo empirico dei greci antichi. Le bugie, sia pur a fin di bene, si smascherano con i dati di realtà. E i dati di realtà, nel caso di specie, ce li fornisce il ministero dell’economia il quale, il 18 novembre 2014, posta sul suo sito questa ghiotta notizia: “Oggi pubblichiamo la serie storica dell’avanzo primario degli ultimi vent’anni, dal 1995 al 2014. In questo periodo l’Italia registra un avanzo di bilancio per ben 19 anni su 20 mentre le altri principali economie europee hanno registrato un disavanzo  almeno 7 volte”. Carramba che sorpresa. Il prof non ha fatto i compiti per casa, evidentemente. Che c’azzecca la tanto vituperata evasione con i problemi attuali se la Bocca della Verità ci dice, con una sfumatura di giustificabile autocompiacimento, che le tasse incassate annualmente  dallo stato italiano sono state sufficienti a coprire la famigerata spesa pubblica improduttiva quasi senza eccezioni nell’ultimo ventennio? Dov’è la scarsa propensione alle regole degli italiani se i loro cugini foresti hanno fatto peggio sette volte tanto? Infine, perché, se l’Italia è il più virtuoso dei paesi  Ue, e drena dalle tasche dei suoi cittadini denaro più che bastevole a pagarne i capricci, si è indebitata a tal punto? Queste, ovviamente, sono domande che nessuno può farsi all’interno di una cornice mitologica perché mettono in discussione le imposture di cui essa è intessuta. Infatti, non se le pone Monti, ma non le pone neanche Renzi a Monti ed entrambi le occultano ai loro elettori, giacchè la matassa mitologica svolge la funzione rassicurante un tempo demandata alle ideologie. Non conta la sua matrice illusoria, conta che essa giustifichi le sofferenze di chi non può, non sa o non vuole capire e agevoli le trame di chi capisce fin troppo.
Francesco Carraro
www.francescocarraro.com

TWIN POWERS



TWIN POWERS
Ci sono delle immagini, delle clip, dei frame audio o video in grado di sintetizzare la quintessenza di un’epoca. E ciò a prescindere dalla loro veridicità intrinseca e dalla circostanza che riproducano fatti autentici, piuttosto che farlocchi. Il loro ruolo è di sunteggiare in un secondo, o in una istantanea, il senso che ci sfugge. Pensate al cormorano inzuppato di petrolio della prima guerra del golfo. Bene, il minuetto tra Renzi e Monti andato in scena l’altro giorno nel senato della repubblica appartiene a pieno titolo alla categoria e merita di essere analizzato da un punto di vista della meta-politica prima ancora che sotto il profilo della cronaca spicciola. L’episodio si riduce al feroce scontro dialettico tra gemelli siamesi dotati di un corpo a due teste, destinati da madre natura a rimanere insieme nella vita e nella morte, ma con disparità di vedute  sulla durata della ricreazione. Uno vorrebbe restare in giardino a giocare altri cinque minuti, l’altro esige il rispetto rigoroso della campanella già suonata. La lite, quindi, non scaturisce dalle grandi scelte esistenziali che implicano, o addirittura impongono, la divaricazione degli intendimenti e delle storie. Quel genere di dissidio  è alla portata di  cervelli dimoranti in corpi diversi, in grado di deambulare nello spazio e di spostarsi attraverso il tempo seguendo traiettorie divergenti. A pensarci bene, e fuor di metafora, quest’ultima è la sola, autentica libertà. Nel caso di Renzi e Monti, la disputa, brutale benché orchestrata sul filo della parola anziché su quello della spada, è apparente. Si tratta di gemelli siamesi, fatti per marciare, quand’anche divisi, comunque uniti nella medesima direzione. Il loro scorno è di pura facciata, ma è la facciata di Giano: bifronte. Due facce, una razza direbbero in Grecia. Se procediamo a disossare la loro schermaglia dalle minuzie inessenziali, dalla ciccia superflua, scopriremo che l’ossatura, lo scheletro, il cranio sottostante, per dir meglio, a cui aderiscono le fattezze dei contendenti, è lo stesso e ha un nome ben preciso declinato in tre parole: ‘rispetto dei trattati’. Sia Renzi che Monti sono persone, nel senso etimologico latino del termine, personae, cioè maschere applicate alla testa monolitica, e immodificabile, di un solo manichino. Essi bisticciano sull’interpretazione delle regole, ma non ne mettono in discussione la sacralità presunta (e intimamente fasulla e fallace). Sono giuristi che si menano di santa ragione per stabilire se è preferibile la corda o il veleno per giustiziare un condannato, senza con ciò eccepire sulla sostanza della pena di morte. Come le magliaie della rivoluzione francese, fanno l’uncinetto sul cadavere della Repubblica Italiana che fu (sovrana) e begano sullo spessore della lama criminale che ne ha mozzato il capo.
Francesco Carraro
www.francescocarraro.com