sabato 23 gennaio 2016

MERCI PETIT


MERCI PETIT

Tentiamo un’operazione funambola, temeraria, allegorica oltre ogni limite ragionevole. Proviamo a tendere una fune invisibile tra due eventi iper significativi: uno così denso di contenuti da essere conosciuto da ogni uomo del pianeta (in quanto capolinea della storia moderna e sponda d’abbrivio del terzo millennio), l’altro così pregno di senso da non essere noto a nessuno, salvo quattro gatti cinefili. Eppure, entrambi avvengono nel medesimo luogo, coinvolgono gli stessi totem simbolici e riguardano la caduta da (o di) un mito di cemento armato: le due torri di New York, twin towers in lingua originale. Le coordinate spaziali sono identiche, sovrapponibili come l’immagine di un grattacielo allo specchio. Mutano solo le variabili di tempo, ma poichè il tempo è un’illusione, possiamo davvero fissare un cavo equilibrista tra due date: 11 settembre 2001-7 agosto 1974. Oppure, capovolgetele: 7 agosto 1974-11 settembre 2001. Invertendo l’ordine dei fattori, il prodotto alchemico di questa spericolata somma zero di episodi non cambia. Tutti sappiamo tutto (o crediamo si saperlo) sul fatidico crollo in diretta mondiale che generò ground zero facendo  deragliare, da un binario all’altro, il treno del nostro passato verso un futuro differente. E, con esso, la nostra biografia sociale e individuale, di popoli e di singoli, di masse e di coscienze, da una certa ordinata concezione del Tempo a un’altra di tetro disordine. Figliando, così, le cupe, caliginose conseguenze dell’oggi. Quasi nessuno, invece,  sa di quell’altro giorno, parimenti  fatidico: a New York, un giovane e squilibrato francese, il più equilibrato acrobata di sempre, Philippe Petit, sta sul tetto della torre uno, insieme a un compagno d’avventura. Sulla cima della torre due, un paio d’altri soci si sbraccia. È l’aurora di un’anonima giornata estiva, al suo stato nascente, sulla skyline della Grande Mela. I quattro pazzi sono reduci da una notte di attesa. Dopo essersi introdotti con elementari stratagemmi nella pancia del mostro, sono riusciti, la sera innanzi, a salire su. Via montacarichi, han trasportato una tonnellata di materiale quattrocento metri sopra il suolo, utilizzando documenti e pass fasulli. Dunque, ventisette anni prima della missione di morte e sciagura che sappiamo, c’è un altro commando in agguato, con il World Trade Center come obbiettivo. Ci siamo: i capi della fune, ai due lati svettanti della storia recente, sono ben tesi. Adesso annodiamoli. Mentre, nel duemilaeuno, gli aerei dirottati squarciano il ventre di cristallo dei colossi, nel settantaquattro, Philippe e il suo compagno osservano, sessanta metri più in là, le due figurine immobili dei complici, sul bordo dell’edificio antistante. Sono lì per un motivo preciso e devono agire. Philippe dice: “E’ una cosa impossibile, è chiaro. Dunque, mettiamoci al lavoro”. Da qualche anno, il magro e risoluto Petit, dopo aver camminato in bilico tra due alberi, tra due pali, tra i due campanili di Notre Dame, tra le due estremità del ponte di Sidney, ha deciso di cimentarsi con l’inconcepibile: attraversare il vuoto, barcollando  su un tirante tra le gemelle del Center, senza protezioni, scavalcando il baratro per approdare, vivo, sull’altro orlo dell’abisso. Però, c’è un problema insormontabile da risolvere, prima: agganciare una gomena d’acciaio a due estremi così estremi, come fosse uno spago da stendino. Un’impresa folle esige un’idea folle. Petit e i suoi l’hanno avuta. L’amico, di là dal fosso, con un arco da bambini, scaglia una freccia legata alla lenza di un roccolo dall’una all’altra torre, da quella dove Petit non c’è a quella dove Petit c’è. Contro ogni probabilità, la birichinata riesce, il filo da pesca colpisce il bersaglio e Philippe, facendone una leva per ancorare il mondo, corda dopo corda, fune dopo fune, cavo dopo cavo, raggiunge lo scopo. Ora, smentendo le previsioni della ragione e le ragioni del possibile, l’impossibile è, letteralmente, a un passo. Dopo mesi di preparativi e fallimenti, di false partenze e conati abortiti, dopo innumerevoli viaggi studio dalla Saint Chapelle alla Statua della Libertà, Philippe è lì, pronto ad agguantare il suo sogno e lo fa. Deambula per quarantacinque minuti sul filo, vi si sdraia, si rialza, fa un avanti e indietro totalmente assurdo da credersi. E, infatti, non vogliono crederci le migliaia di passanti che, dal basso, lo guardano, rapiti dalla divina sfacciataggine della sua grazia senza scrupoli. E lo scrutano i poliziotti inferociti e poi gli obiettivi di telecamere affamate di notizie. Non ci crede proprio nessuno, così come nessuno voleva crederci, all’alba del secolo successivo, nell’assistere allo scempio spettrale, all’incenerimento di quelle stesse torri che Petit osò scalare e congiungere con la sua escursione dentro al nulla. Dove può portarci l’azzardo di una fune tesa tra il giorno, dimenticato, in cui un uomo volante sfidò le nuvole e quello, immortale, della strage in grado di spaccare il tempo come una mela, alla pari della nascita di Cristo? Petit, nomen omen,  è l’infinitamente ‘piccolo’, ma sconfinatamente umano, che sente e segue la sua via, per quanto esile e fragile, a dispetto di ogni ragione. Petit è la libertà artistica e nobile di realizzare se stessi  e rispettare i propri sogni in una misura così smisurata e irregolare da risultare inaudita, e perciò  inudibile, alle orecchie del Sistema. L’undici settembre, da qualsiasi prospettiva lo si guardi, è l’esatto contrario: un coagulo di energie anti-umane. Per i cultori della versione ufficiale, esso è l’esito di un fanatismo ideologico ben disposto al sacrificio dell’uomo sull’altare di un dio invisibile. Per i sostenitori  del complotto, esso è la trama di una luciferina intelligenza ben capace dell’olocausto dell’uomo sull’ara di un dio occulto. Le versioni della storia si fronteggiano, come le due guglie di New York. Michel Petit ci cammina in mezzo. Egli attraversa il tiro di schioppo che separa il primo pinnacolo dal secondo e i tre decenni, i due secoli, il paio di millenni che disgiungono il sette agosto dall’undici settembre. Petit, a suo modo, ci indica l’unica salvezza, anche se lo fa per trasfigurazioni e immagini, un affresco vivente, e semovente, dipinto sul cielo di New York: la via di fuga dalle matrici di morte, di qualsiasi natura e colore, è solitaria. Per una strepitosa coincidenza del fato, proprio nel luogo in cui doveva consumarsi il Male Costitutivo, il Peccato Originale  della Nuova Era, di cui siamo incolpevoli (inconsapevoli?) vittime, si è realizzata l’impresa ignota che ne rappresenta l’antidoto. Quasi presagisse l’avvenire, il ‘Matto’ ha scelto proprio quel palco per inscenare lo spettacolo più pedagogico mai concepito. Marciando, da solo, tra le  nubi,  osando l’impensabile, Philippe ci sprona a fare altrettanto, a tendere fili di seta tra i punti saldi delle nostre vite e passarci attraverso, anche se questo implica rinunce impopolari, scelte controcorrente, decisioni anticonformiste. Ci dice: se non vuoi cadere vittima delle matrici inumane, non c’è altra opzione. E non parliamo del rischio di una morte fisica (ineliminabile), ma di quello, più grave, di una morte mentale, spirituale, interiore, del cedere la propria coscienza a una fede altrui o all’incantamento di un mago maligno: entrambe scelte suicide e, quindi, omicide. Petit è un minuscolo, umilissimo profeta e si erge, col profilo non cercato, né voluto, del Grande a sua insaputa, sul proscenio  del Presente. Dobbiamo abbandonare i sentieri tracciati, se  vogliamo trovare l’unica via di scampo: la nostra. Essa sarà sempre individuale, solitaria, ma ci ripagherà della stessa ebbrezza provata da Petit lassù, dove i grattacieli finivano e i cieli iniziavano. Lui c’è riuscito perché si è decontaminato dal Pensiero Corrente, non ha ceduto alle manipolazioni, ha voluto cimentarsi con il proprio infungibile scopo, con il fine non negoziabile della sua esistenza. Non con quello codificato per lui dalla Matrice del Controllo: religiosa, politica o culturale che fosse. E ce l’ha fatta. Si è salvato da solo perché la solitudine è il prezzo della Cerca del Graal, ma lo ha fatto insieme ad altri compagni di avventura perché non si è mai davvero soli in quel tipo di viaggi.   Il Cammino di Compostela della conquista di sé  implica, giocoforza, la libertà dall’alienazione. E, quindi, la sottrazione pacifica (perché personale), incruenta (perché disarmata), leggera (perché senza lotte), ma eminentemente rivoluzionaria, dal contesto in cui siamo inseriti, dove siamo pascolati. Robert Pirsig la definirebbe una rivoluzione zen. C’è una foto di quel giorno, presa da sotto, che cattura in uno scatto le sagome dei titani di calcestruzzo, la fune che li unisce, una formichina umana sospesa e un aereo che la sovrasta, con direzione opposta. Forse,  è l’unica realistica istantanea (con quel rimando involontario alla tragedia del 2001) in grado di condensare la cifra ultima degli incomprensibili decenni alle nostre spalle. In qualche modo misterioso, Petit è un decodificatore di senso, ha tradotto in una lingua umana, in una poetica del significato,  il diabolico, insignificante disordine dell’insensatezza e del  caos. Ad allegoria conclusa, prendiamo in prestito le parole di Philippe: “bisogna esercitarsi alla ribellione, rifiutare di adeguarsi alle regole”. Detto da uno che non si mise a capo di un esercito, né predicò insurrezioni, è un programma adamantino di ciò che intendiamo, il manifesto di una rivoluzione interiore. Fine dell’allegoria. Abbiamo steso un filo umanamente illogico tra due eventi separati dall’abisso dei tempi, degli spazi, delle convenzioni, per scoprire che è animato da una logica profondamente umana. Quel filo tiene. Sta  a noi trovare il coraggio di percorrerlo. Merci Petit.

Francesco Carraro

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domenica 17 gennaio 2016

ABBI DUBBI


ABBI DUBBI

Nota a margine su una questione  interessante: c’è un termine che sta diventando sempre più popolare, quasi come competitività, riforme, ripresa e il resto della sbobba cucinata dietro le quinte da ottimi cuochi e servita calda, davanti alle quinte, dai loro media di riferimento. Il termine è legalità, declinato al positivo, e corruzione, declinato al negativo. Non c’è vip della politica o dello spettacolo, dell’economia o del clero (l’ultimo arruolato alla squadra è il vescovo di Roma, monsignor Bergoglio, detto Francesco) che non infili le due paroline magiche nei suoi pistolotti. Viva la legalità, abbasso la corruzione, come abracadabra o apriti sesamo, sim sala bin o bibidi , bibidi bù. Password buone a tutti gli usi che se le maneggi, come le prendi, dove le infili, non sbagli mai. Subito scatta l’applauso ebete della claque. Chi potrà mai opporsi alla legalità, chi potrà mai apprezzare la corruzione? Sono termini così vaghi, così elastici, così rarefatti che ci puoi costringere dentro qualsiasi concetto, anche i più subdoli e infingardi. E allora dove mira chi li usa? E perché li usa così spesso chi sta in prima fila quando parla a quelli dei loggioni e delle retrovie? Un motivo, forse, c’è.  Legalità significa rispetto della legge, ma abbiamo una domanda e alziamo la mano (come ci ha insegnato a fare il Renzi): se la legge è ingiusta, l’illegalità è giusta o sbagliata? Se, nel mondo che verrà, le leggi le faranno in quattro gatti, tutti molto fichi, e non più quei verminai di corruzione che sono i parlamenti attuali e se questi quattro gatti faranno leggi liberticide, contrarie ai diritti dei meno abbienti o dei più sfigati, l’illegalità sarà un valore o un disvalore? Porsi fuori dalla legge, o ai suoi margini o in contrasto ad essa, sarà davvero così iniquo? Non è che lassù si stanno portando avanti coi lavori e iniziano ora una campagna di odio contro l’illegalità destinata a dare i suoi frutti a tempo debito? E la corruzione? Di fronte all’impetuoso avanzare delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni che mandano a ramengo interi settori delle libere professioni, delle mini imprese, dei commercianti al minuto, tutti fagocitati dalla grande distribuzione, dalle fusioni e dalle incorporazioni, è corrotto un povero cristo che si arrangia da ‘fuori-legge’ per tenersi a galla? È corrotto il nanetto che viola  le regole del gioco scritte da Golia per portarsi a casa la pagnotta? Sul fatto che le regole del gioco saranno, sempre più spesso, scritte a beneficio del secondo, dai suoi selezionati garzoni, non v’è dubbio. Allora, l’insistenza ipnotica e ossessiva su questa faccenda della lotta alla corruzione e della beatificazione della legalità, a cosa  è  dovuta? Solo all’esigenza vera di combattere un male attuale? Oppure (soprattutto) al bisogno occulto di preparare masse  legalizzate e incorrotte alla legge della giungla del mondo che verrà? Chi lo sa? Abbi dubbi, cantava Bennato.

Francesco Carraro

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ATTENZIONE ALLA MANUTENZIONE


ATTENZIONE ALLA MANUTENZIONE

Piccola recensione con quarantadue anni di ritardo. Nel 1974 veniva alla luce un libro unico nel suo genere, anzi unico in qualsiasi genere. Non è un romanzo, ma è un romanzo. Non è un saggio, ma è un saggio. Non è un diario, ma è un diario. È tutte queste cose messe insieme e, nel contempo, le travalica, sovrapponendole, intrecciandole e ottenendone un prodotto alchemico sopraffino impastato con gli ingredienti di suspence delle trame romanzesche, con quelli di riflessività e ponderazione dei pamphlet ben riusciti, con quelli autobiografici delle vite vissute e dei loro drammi veri. Non vi tengo ulteriormente sulle spine. Si tratta del libro di uno scrittore (ma può definirsi tale chi scrive due soli testi nella sua carriera?), in parte filosofo (ma può definirsi tale chi viene ricoverato a più riprese per disturbi psichici?), in parte insegnante (ma può definirsi tale chi abolisce i voti e gli esami e viene cacciato dalla scuola in cui insegna?): Robert Pirsig, genio americano che, nella seconda metà del Novecento, si trovò ad affrontare una tragedia. Impazzì e subì un trattamento di elettroshok. Al risveglio era, letteralmente, un altro, tanto da designare con lo pseudonimo di Fedro la propria personalità precedente alla caduta. Ignaro di chi egli fosse stato e di come fosse arrivato all’età che si ritrovava, decise di intraprendere un lungo viaggio in moto on the road, alla Kerouac, nelle sterminate e solitarie praterie e montagne nordamericane, in compagnia del figlio problematico e di una coppia di amici. Strada facendo, cercò di ricostruire il proprio pensiero, quello di prima della ‘lobotomia’ e ne venne fuori quel piccolo capolavoro che è ‘Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta’. Alternando squarci di paesaggio, descritti con la maestria del consumato narratore, a lunghe meditazioni su se stesso e sulla vita, Pirsig si inerpica (o sprofonda, se preferite) alla ricerca del concetto che lo fece andare fuori di testa: la qualità. Nasce così la filosofia della qualità di cui il nostro è l’unico e insuperato esponente. E allora? A che giova saperlo? Qualcosa mi dice che questo funambolo del pensiero, capace di camminare in bilico sul filo teso tra metafisica e follia, di cadere nella seconda metà del baratro e di ritornare poi alla prima, con dei lividi, ma lucido, abbia molto da insegnarci. Soprattutto per quanto concerne l’idea che lo ossessionò fin  quasi a ucciderlo: cos’è la qualità? Chi dà qualità alla nostra esistenza? Quanta davvero ce ne manca? Perché avvertiamo un deficit di qualità della vita se non sappiamo definirla? E, soprattutto e infine, per quale ragione, nell’epoca storica con la qualità della vita più alta di sempre c’è anche un’impressionante carenza di qualità nelle vite singole, nei microcosmi individuali, negli universi personali? Tanto da provocare impazzimenti frequenti e uso e abuso di psicofarmaci per farvi fronte? Pirsig può essere un’ottima guida per avviarci ad apprendere lo zen e l’arte della manutenzione di noi stessi.

Francesco Carraro

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PIZZO E FICHI


PIZZO E FICHI

L’altro giorno passeggiavo in città e mi sono imbattuto in uno di quei surreali, favolosi mattacchioni episodicamente  impegnati in ciò che Socrate faceva di default, dall’alba al tramonto, nell’agorà di Atene: pensano a voce alta, pongono domande stupide, riflettono al netto di mediazioni, parlano senza censure. Il capitano coraggioso si era portato un predellino e l’aveva messo al centro di una piazzola medievale, vi si era arrampicato sopra e cercava di provocare i passanti a una franca discussione. Dopo un po’  di saluti e cazzeggi, il tizio, con un copricapo da buffone, la giacca di velluto lisa, le brache troppo larghe cascanti su scarpe troppo strette, si è messo un naso di plastica a patata, da clown, e ha posto sul tappeto la questione che segue: “C’è un fatto, nel mondo che passa e nei tempi che corrono, che mi ricorda da vicino una cosa, ma non riesco a ricordarmi quale, ce l’ho sulla punta della lingua, ma davvero non ci arrivo, aiutatemi”. Si è radunata una piccola folla di curiosi a darsi di gomito e pigliare per i fondelli il picchiatello, a mezza bocca, con rapidi e sapidi commenti sottovoce. Poi, però, mentre l’uomo proseguiva a illustrare il suo dilemma, ci siamo tutti appassionati perché percepivamo una soluzione a portata di mano, senza riuscire a scovarla. Più o meno, il giullare ha argomentato così: “Fatemi capire, c’è questa realtà detta Unione Europea a cui da decenni diamo sempre di più. Ci ha chiesto, intanto, di rinunciare ai confini geografici e l’abbiamo fatto perché ci vuole più Europa per avere più protezione. E va bene. Poi ci ha chiesto la cassetta di sicurezza, insomma il Tesoro con cui ci facevamo la carta moneta perché, se i denari son gestiti da un solo condomino, gli altri hanno più protezione, e gli abbiamo dato anche quello. E va bene. Poi ci ha chiesto di prestargli la facoltà normativa, insomma il potere esclusivo di farci le leggi da noi, perché se le leggi non le fanno i politici ladri, ma i ventotto Savi, allora avremo la Repubblica di Platone e, va da sé, molta più protezione e abbiamo tolto dal nostro Parlamento tutti i pulsanti di comando trasferendo la stanza dei bottoni altrove. E va bene. Poi ha cominciato a chiederci  una specie di contributo, sempre più consistente, un pizzo diremmo noi della città da cui provengo. Caspita, pure ‘o pizzo, ma va bene perché ‘ci vuole più protezione’ hanno cantato in coro i nostri entusiasti europeisti prima ancora che arrivasse la spiegazione da Bruxelles. E Bruxelles ha annuito, sorniona: ‘Ben detto, ecco la spiegazione: ci vuole più protezione’.  Ora, cari concittadini, so che mi considerate un border line da manicomio però vi prego, aiutatemi, qual è quella realtà molto simile a questa dove se paghi, basta che paghi, hai sempre più protezione? Possibile che da noi non se ne parli e finisca sempre tutto a pizza e fichi? Davvero risposta non c’è?”. Nessuno ha fiatato perché nessuno sapeva che dire. Siamo andati via a capo chino interrogandoci sull’arcana sapienza di quell’uomo peculiare e sulla potenza della vera filosofia, nata non a caso sulla strada, e in grado di porre i quesiti immortali cui i mortali non sapranno rispondere mai.

Francesco Carraro

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UNA RISATA CI SEPPELLIRA'


UNA RISATA CI SEPPELLIRA’

Notizie dal futuro. Gennaio 2017. Il nuovo film di Checco Zalone batte i primati di ogni tempo di incassi, frantumando il suo record dell’anno prima: cinquanta milioni di euri nel primo week end. Praticamente, tutti gli italiani adulti in grado di respirare, nel fine settimana, hanno assistito alla proiezione della nuova pellicola capace di guadagnare, nei  due giorni iniziali, quanto Via col vento, Star Wars, Et e Titanic messi insieme. La critica si interroga e cerca di trovare la ragione di questo incomparabile fenomeno di successo pop. Sulle riviste patinate e sui quotidiani più letti e nei salotti tv più quotati, ferve il dibattito. Com’è possibile che questo pur simpatico e stralunato attore faccia numeri siffatti al botteghino puntando sull’effetto comico? Ridere fa ridere, niente da dire, Checco ha sempre fatto ridere, anche in passato. Ma questo nuovo film dal titolo N’do cado? non fa semplicemente ridere, provoca scompisciamenti collettivi, irrefrenabili attacchi di ilarità isterica che, non di rado, sfociano in ricoveri d’urgenza e in somministrazioni di cure intensive.  L’aspetto singolare della faccenda è questo: per la prima volta nella sua carriera costellata di trionfi, Zalone mette in scena una trama che, fino all’ultimo, è triste, cupa, realistica. Poi c’è il colpo di teatro finale e vengono giù le sale. Il film parla dell’Italia degli ultimi sessant’anni, dalla firma del trattato di Roma del 1957, diciamo, istitutivo della Comunità Economia Europea. In un crescendo di malinconoia, racconta di come il nostro Paese, già quinta potenza industriale del mondo, perde gradualmente la sua sovranità, smantella i propri confini, apre indiscriminatamente la porta a orde di immigrati, la spalanca alla concorrenza di prodotti stranieri taroccati che mettono in ginocchio le piccole e medie aziende nazionali, cede il proprio potere legislativo a organi non elettivi senza una sola traccia di italianità che risiedono in Belgio, mica nel Lazio, consegna la propria cassa di denari, detta Bankitalia, a una entità terza sita sulle rive del  Meno, rinuncia a stampare la propria moneta a beneficio di quella stessa insindacabile entità, continua a tassare a sangue i suoi cittadini non per fornire loro i servizi pubblici (nel frattempo privatizzati), ma per rimborsare gli speculatori internazionali che le prestano il denaro per sopravvivere, si adatta ad obbedire a comandi contenuti non in leggi partorite da rappresentanti del popolo sovrano italico, ma in regolamenti e direttive elaborati da ventotto semisconosciuti, riuniti in un consesso detto Commissione, versa a questa stessa commissione miliardi e miliardi di contributi ricevendone in cambio la metà come contributo alle spese, viene umiliata quando c’è da prendere una decisione importante e valorizzata, con una pacca sulle spalle, quando c’è da prendere per il culo il più pirla della compagnia. Insomma, il film insiste per due ore due, con impeccabile taglio documentaristico, a snocciolare il motivo per cui il Belpaese è finito nello stato di servaggio in cui si trova. Poi, ecco il tocco di genio del regista. Ultimo atto: il premier italiano si avvicina ai microfoni  e, con l’espressione da ganassa di un cartoon di Carosello degli anni d’oro, mette mano alla Colt e dice: “Che non pensino a Bruxelles che stiamo qui a farci intimidire. I tempi in cui si poteva telecomandare la linea da Bruxelles a Roma sono finiti”.  Fenomenologia di un Fenomeno.

Francesco Carraro

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NATURA TESTADURA


NATURA TESTADURA

È davvero singolare l’attacco concentrico alla famiglia tradizionale in atto negli ultimi tempi. Sarà colpa di un dato di fatto ancora non smentibile:  un essere umano di sesso maschile unendosi a un essere umano di sesso femminile può generare un figlio e dar vita a un nucleo stabile di convivenza chiamato famiglia. Questo dato regolare di realtà è divenuto, all’improvviso, un’eccezione  a cui si impone di autogiustificare la propria esistenza, anzi la propria stessa sopravvivenza. Come pretendere dal cielo di motivare il suo blu. Ma tant’è. È ciò che accade di fronte all’emergere prepotente di altri centri di interesse che reclamano il medesimo diritto naturale al coniugio e alla figliolanza. Altri amori, altri clan, altri sodalizi esigono di vedersi riconosciuto un plus che la natura matrigna si ostina a concedere solo all’unione incivile di coppie formate da soggetti di genere diverso. Come si fa, come non si fa? Di certo, i cultori di questa trasgressiva e ignominiosa abitudine detta famiglia tradizionale, pur rappresentando la schiacciante maggioranza della società, sono convocati davanti al tribunale della Nuova Scienza, della Nuova Etica, della Nuova Laicità e della Nuova Storia a discolparsi. Perché pretendete in esclusiva il diritto a generare ed allevare dei figlioli? E con questa Corte, signori miei, mica si scherza. Essa schiera l’artiglieria pesante fatta di giornaloni di grido, di opinionisti di grido, di politici di grido. E di un sacco di vipppppssssss. Very important persons. Tutta gente che piace, insomma. E a questa gente che piace (quando essa raggiunge la massa critica) la democrazia je fa na’ pippa, come dicono a Roma. Quindi, chi sostiene l’ovvio (maschio+femmina=bambino)  viene vilipeso come un indigeno non acculturato da ‘trattare’. Per contro, chi sostiene l’assolutamente altro ed eccentrico (rispetto ai misteriosi, ma non ancora emendabili percorsi della biologia primordiale) si impanca a illuminista della domenica e discetta, come un redivivo Voltaire, sui motivi per cui avere due papà o due mamme è addirittura più logico, più sano, più fico di quanto mater natura non dica. Il mondo al contrario, insomma, ma quando il contrario lo patrocina il lupo e il dritto la pecora, finisce sempre che la spunta il primo, forte della sua vis retorica e dei suoi denti canini, come nella favola di Fedro. Dunque, riepiloghiamo per i ritardatari. Tutto congiura contro la famiglia naturale perché nessun argomento (tranne uno) tiene. Non quello religioso perché le religioni sono relitti del passato e i pochi religiosi rimasti quasi si vergognano di esserlo (islamici esclusi), non quello tradizionale perché tradizione fa rima con reazione (e vorremo mica pigliarci dei fascisti), non quello giuridico perché le leggi si fanno e si disfano e tutto è lecito se raccatti il cinquanta più uno dei voti. Chi resta, allora, a presidio della famiglia naturale? La natura, appunto. Che, tonta, tarda e testarda persiste a far sì che i bambini nascano dagli uteri dopo fecondazioni non assistite propiziate dall’incontro di apparati genitali differenti. Ma non preoccupatevi, anche la mater si piegherà perché la Commissione Europea, in caso contrario, la minaccerà con una procedura di infrazione.

Francesco Carraro

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sabato 9 gennaio 2016

PER PAOLO



PER PAOLO
Sto leggendo una pregevole e ricchissima silloge degli scritti e dei pensieri di Pier Paolo Pasolini curata dalla rivista ‘L’Espresso’ e ci sono un paio di considerazioni a cui è impossibile sottrarsi. Intanto, l’impressione che Pasolini sia un intellettuale la cui figura è destinata a ingigantirsi quanto più la nostra storia si inoltrerà nel bosco della perdizione. PPP aveva visto giusto, ma soprattutto aveva visto con sconcertante anticipo le direttrici ineluttabili dei suoi tempi, destinate a inverarsi nelle divinità  dei nostri. Nelle sue battaglie apparentemente di retroguardia contro la televisione, la società di massa, il consumismo esasperato, la venerazione dei mercati c’era un sovrappiù di avvenire, di sensibilità futurista, che manca in quasi tutti gli altri opinionisti dell’epoca. Pasolini aveva percepito che i tradizionali fronti antitetici attraverso i quali la realtà veniva filtrata, letta e interpretata (all’interno dei quali, pure, egli si è ostinato fino alla fine a schierarsi, nominalmente nel battaglione ‘progressista’) si stavano liquefacendo. Le guerre dei bottoni tra i comunisti e gli anticomunisti, tra il capitalismo e i suoi avversari, tra gli operai e i padroni,  erano, per l’appunto, solo cimenti fittizi combattuti su frontiere di cartongesso in via di disfacimento, un tocco alla volta. Pasolini ha intravisto, aldilà delle cortine fumogene delle ideologie alla moda, il Mondo Nuovo alle porte, quello dove un unico, magmatico, onnivoro Mercato di merci, corpi e informazione avrebbe definitivamente seppellito le specificità personali, le tradizioni popolari, le unicità eccentriche di estrazione rurale e pre industriale. Pasolini aveva capito tutto, persino che la sua era una lotta senza speranza perché il mostro contro cui combatteva era dotato di tentacoli troppo pervasivi per essere distrutti. Dopodiché, fanno tenerezza quei suoi editoriali e quelle interviste in cui il nostro si esprime con un linguaggio arcaico, ideologicamente arcaico, fatto di espressioni fossili come ‘lotta operaia’, ‘borghesia’, ‘classi’. Sono tutti paradigmi triturati dalla storia che oggi neppure il pensatore più anticonformista si sognerebbe di riesumare. Ecco la contraddizione scandalosa di Pasolini: che è tremendamente superato nelle forme e nello stile quanto è terribilmente avanti  nella sostanza e nei contenuti. Eppure, non c’è dubbio che oggi, egli avrebbe milioni di  nuovi argomenti per poter dire: ‘ve l’avevo detto’. E per dirlo, magari, a tutta la marea di suoi ‘compagni’ di merende intellettuali che, all’epoca, stavano dalla parte del più forte, senza capire perché, e oggi continuano a stare dalla parte del più forte, sempre senza capire perché. Pasolini, a ben vedere, non era anti-moderno. Era ultra-moderno. E proprio in questo risiede la sua micidiale modernità.
Francesco Carraro
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IL RUMORE DEL NEMICO



IL RUMORE DEL NEMICO
Sono reduce dalle piste da sci e mi ha colpito un fatto. Nonostante la penuria di neve, di cui si lamentano giustamente tutti gli operatori del comparto montagna, la cosa più difficile non è stata trovare un pendio innevato su cui veder sfrecciare gli sci o gli snowboard. L’impresa davvero titanica è stata scovare degli angoli, dei cantucci solitari dove ci fosse un briciolo di silenzio. L’area destinata alla partenza degli skilift e all’arrivo degli sciatori era invasa da rumori assortiti (e sintetici) sparati a palla dalle casse di uno stereo: pubblicità, notizie in diretta dal mondo, la concitata voce di un dj su di giri, musica pop, disco, italiana, hip hop, per tutti i gusti. Suoni che si accavallavano tra loro in una cacofonia insopportabile di strepiti. Ma non mi è parso che quella discoteca a cielo aperto desse fastidio ad altri che al sottoscritto. Allora, mi sono avventurato all’interno dei locali prospicienti il piazzale, ma la musica non è cambiata e non parlo per metafore. Semplicemente, la direzione degli amplificatori era centrifuga anziché centripeta, mirava alle orecchie degli avventori occupati a scolarsi un bombardino o un punch all’arancio (all’interno) invece che su quelli in paziente attesa della seggiovia (all’esterno). Alla disperata ricerca di un posto dove non sentire altro che il silenzio della montagna incantata, mi sono diretto verso un locale fuori mano, una piccola malga inerpicata lontano dalle case e dal casino. Credevo di avercela fatta, sono entrato e non c’era nessuno tranne un oste bonario che mi ha servito un caffè. Eppure, niente da fare. Anche lì dentro, una radio faceva il suo porco lavoro: pubblicità, news, dj e via andare a un volume tale da costringermi a darmela a gambe in cerca di una risorsa che dovrebbe essere tipica delle vette alpine, la loro cifra, la loro regola, non l’eccezione. E, invece, mi sono reso conto con sgomento che il rumore, oramai, ha fagocitato qualsiasi mattonella del nostro vivere quotidiano, dai locali agli uffici ai supermarket ai centri commerciali alle rotonde sul mare fino alle guglie delle cime più alte. La nostra esistenza è affondata (affogata) in un rumore insistente e inutile, una sorta di fatuo cicaleccio senza tregua, latore di informazioni vacue e senza scopo o di ritmi sincopati concepiti, pare, con  la precisa funzione di rincoglionirci. E se ci pensi un attimo ti accorgi che il primo effetto dei rumori di fondo è proprio quello di impedirti di pensare. In conformità a un’epoca dove il pensiero profondo e la meditazione silenziosa sono occupazioni talmente difficili da essere persino scandalose e sconvenienti. Così, anche i posti ideali per il deserto interiore sono stipati all’inverosimile con i suoni imbastarditi di questa civiltà. Il silenzio è bandito, ovunque, e con esso la riflessione prolungata e non intermittente. E i luoghi della socialità sono costruiti sul rumore proprio perché nessuno possa cadere in tentazione.
Francesco Carraro
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PIZZA E FICHI



PIZZA E FICHI
C’è un filo rosso che accomuna le fotografie del nostro premier intento a stringere, con ossequiosa emozione, la mano agli emiri d’Arabia e la notizia di un fondo sovrano dell’Azerbaijian che acquista, per la modica cifra di 97 milioni di euro, il Palazzo San Fedele di Milano, già sede della Camera di commercio meneghina. In entrambi i casi ci troviamo di fronte a una plastica realizzazione dello spirito dei tempi, quindi entrambe le circostanze non vanno sottovalutate per la carica allegorica, se non profetica, che le contraddistingue. La svendita del nostro patrimonio pubblico agli investitori esteri, di qualsiasi estrazione, è infatti uno degli obiettivi della classe politica di cui oggi l’Italia dispone, sia essa di centrodestra o di centrosinistra. Una macchina statale castrata degli attributi sovrani, quelli cioè di procacciarsi da sé la liquidità monetaria, deve giocoforza vendere i gioielli di famiglia. Tocca, pari pari, la stessa sorte alle nobili casate   finite in bolletta. In mancanza di sistemi di approvvigionamento di risorse interni, esse debbono ricorrere alla liquidazione del patrimonio degli avi per auto-sostentarsi. La stessa logica anima gli sforzi retorici  di Renzi in Arabia, piuttosto che in Giappone o in Qatar: cerca dei Paperoni desiderosi di portare la grana da noi, di pompare liquidità nelle esangui casse dello Stato. Ecco perché la politica internazionale, ai tempi del colera finanziario, si riduce a un giro di salamelecchi nelle grandi capitali del grande capitale straniero. In effetti, oggi più che mai, il nostro Paese necessita di un piazzista in cabina di comando, uno che sappia valorizzare fino in fondo la grande bellezza italiana per promuoverla nel mondo. Non è richiesta l’intelligenza politica di un notabile della Prima Repubblica e neppure la capacità di elaborare i piani industriali strategici di un Enrico Mattei, non serve neanche essere bravi nell’aritmetica spicciola perché, a seguire i diktat di Bruxelles, a restare sotto il tetto del deficit o del debito sul pil, è buono anche un babbeo non scolarizzato. È sufficiente, piuttosto, disporre di un commesso viaggiatore dalla faccia tosta e dalla lingua sciolta abbastanza per convincere i riccastri del pianeta a venire a far shopping da noantri. E vantare, magari, uno scrigno di gioielli ben fornito per soddisfare, alla bisogna, i palati degli emiri o degli sceicchi o degli oligarchi più esigenti. ‘Noi ce li abbiamo entrambi, il più fico del bigoncio e anche i fichi nel bigoncio, teniamoceli stretti’ pensa ogni dirigente del PD. Ecco, in venti parole, la sintesi del  progetto politico (per l’Italia del terzo millennio) scaturito dal dibattito interno e dall’elaborazione programmatica di quello che fu il Partito Comunista Italiano.
Francesco Carraro
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RISERVE INDIANE



RISERVE INDIANE
Uno dei metodi più sofisticati attraverso cui il Sistema  autogoverna se stesso è quello delle ‘riserve indiane’. Esso consiste nella creazione di tabù, di argomenti non affrontabili in alcun modo da chiunque voglia fregiarsi della patente di ‘serio’ professionista. Gli argomenti indicibili  sono delle zone franche, delle riserve indiane, appunto, in cui è consentita la ‘ricreazione’ di tutti gli eccentrici, dei picchiatelli, dei mezzi matti del villaggio globale dell’informazione. A questo punto, creato il reparto parapsichiatrico delle notizie sfigate, il gioco è fatto. È sufficiente confinare nella riserva indiana qualsiasi tematica scabrosa o scottante per la matrice, bollandola con epiteti  che, di solito, coincidono con l’aggettivo cospirazionista o complottista. I cronisti delle innumerevoli reti di cui si compone la macchina sforna-notizie sono mafiosamente avvertiti senza bisogno di veline. Possono parlare di (quasi) tutto, ovviamente seguendo le indicazioni della direzione editoriale (una libertà vigilata, diciamo), a patto di non infilarsi in una riserva indiana. Se lo fanno, automaticamente si beccano il pigiama a righe dei mattacchioni e un compassionevole sorriso di circostanza. Non  conta se e in che misura il fatto posto sul tavolo sia vero o verosimile, e neppure se le trame o le singolarità denunciate siano degne di analisi e sintesi secondo un mero criterio di razionalità baconiana. Conta solo che appartengano, o meno, ai temi maledetti di cui chi fa informazione non può nutrirsi. Così, nell’epoca apparentemente più libera di sempre, con il maggior numero di canali televisivi e di siti divulgativi e di gazzette cartacee (sia pur moribonde), si è instaurata una sorta di dittatura invisibile dell’auto-censura. Siamo stati derubati del contributo di indipendenza e ‘cattiveria’ di alcuni miti del giornalismo d’antan. Quei miti, se anche si reincarnassero ai giorni nostri, non avrebbero scelta. Dovrebbero rinunciare alla vocazione originaria di ogni cronista che si rispetti (servire la verità, in ogni momento, e denunciare lo scandalo, ovunque si annidi) e mettersi a bottega. Il loro talento verrebbe comunque retribuito e valorizzato, ma solo se coltivato al di fuori del recinto della riserva indiana. Laddove essi si cimentassero con le aree del sapere oggetto di anatema, ne avrebbero la carriera distrutta. È questo il metodo buffo attraverso il quale veniamo educati, giorno dopo giorno, ad accettare anche versioni talmente idiote su come va il mondo da rivalutare persino quelle oggettivamente ridicole del circuito complottista. Infatti, per aggiustare le gambe malferme di una palafitta di menzogne, occorrono sussidi che  abbrutiscono l’insieme, anche da un punto di vista estetico, non solo da quello sostanziale. Tuttavia, va bene così, basta ci sia entrato in testa che esiste una informazione ‘ufficiale’ (fatta dai media generalisti che si regolano da sé e, al massimo, abbaiano l’uno contro l’altro per spirito di concorrenza) e una versione pazzoide, apocrifa, fumettistica dei tempi che corrono cui è vietato attingere, pena la morte civile.
Francesco Carraro
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