MERCI PETIT
Tentiamo
un’operazione funambola, temeraria,
allegorica oltre ogni limite ragionevole. Proviamo a tendere una fune
invisibile tra due eventi iper significativi: uno così denso di contenuti da essere
conosciuto da ogni uomo del pianeta (in quanto capolinea della storia moderna e
sponda d’abbrivio del terzo millennio), l’altro così pregno di senso da non essere noto a nessuno,
salvo quattro gatti cinefili. Eppure, entrambi avvengono nel medesimo luogo,
coinvolgono gli stessi totem simbolici e riguardano la caduta da (o di) un mito
di cemento armato: le due torri di New York, twin towers in lingua originale. Le coordinate spaziali sono
identiche, sovrapponibili come l’immagine di un grattacielo allo specchio. Mutano
solo le variabili di tempo, ma poichè il tempo è un’illusione, possiamo davvero
fissare un cavo equilibrista tra due
date: 11 settembre 2001-7 agosto 1974. Oppure, capovolgetele: 7 agosto 1974-11
settembre 2001. Invertendo l’ordine dei fattori, il prodotto alchemico di
questa spericolata somma zero di episodi
non cambia. Tutti sappiamo tutto (o crediamo si saperlo) sul fatidico crollo in
diretta mondiale che generò ground zero
facendo deragliare, da un binario all’altro,
il treno del nostro passato verso un futuro differente. E, con esso, la nostra
biografia sociale e individuale, di popoli e di singoli, di masse e di coscienze,
da una certa ordinata concezione del
Tempo a un’altra di tetro disordine. Figliando, così, le cupe, caliginose
conseguenze dell’oggi. Quasi nessuno, invece, sa di quell’altro giorno, parimenti fatidico: a New York, un giovane e squilibrato francese, il più equilibrato
acrobata di sempre, Philippe Petit, sta sul tetto della torre uno, insieme a un
compagno d’avventura. Sulla cima della torre due, un paio d’altri soci si
sbraccia. È l’aurora di un’anonima giornata estiva, al suo stato nascente,
sulla skyline della Grande Mela. I quattro pazzi sono reduci da una notte di
attesa. Dopo essersi introdotti con elementari stratagemmi nella pancia del
mostro, sono riusciti, la sera innanzi, a salire su. Via montacarichi, han
trasportato una tonnellata di materiale quattrocento metri sopra il suolo, utilizzando
documenti e pass fasulli. Dunque, ventisette anni prima della missione di morte
e sciagura che sappiamo, c’è un altro commando in agguato, con il World Trade Center come obbiettivo. Ci siamo: i capi della fune, ai due
lati svettanti della storia recente, sono ben tesi. Adesso annodiamoli. Mentre,
nel duemilaeuno, gli aerei dirottati squarciano il ventre di cristallo dei colossi,
nel settantaquattro, Philippe e il suo compagno osservano, sessanta metri più in
là, le due figurine immobili dei complici, sul bordo dell’edificio antistante.
Sono lì per un motivo preciso e devono agire. Philippe dice: “E’ una cosa
impossibile, è chiaro. Dunque, mettiamoci al lavoro”. Da qualche anno, il magro
e risoluto Petit, dopo aver camminato in bilico tra due alberi, tra due pali,
tra i due campanili di Notre Dame, tra le due estremità del ponte di Sidney, ha
deciso di cimentarsi con l’inconcepibile: attraversare il vuoto, barcollando su un tirante tra le gemelle del Center, senza protezioni, scavalcando il
baratro per approdare, vivo, sull’altro orlo dell’abisso. Però, c’è un problema
insormontabile da risolvere, prima: agganciare una gomena d’acciaio a due
estremi così estremi, come fosse uno
spago da stendino. Un’impresa folle esige un’idea folle. Petit e i suoi l’hanno
avuta. L’amico, di là dal fosso, con un arco da bambini, scaglia una freccia legata
alla lenza di un roccolo dall’una all’altra torre, da quella dove Petit non c’è
a quella dove Petit c’è. Contro ogni probabilità, la birichinata riesce, il
filo da pesca colpisce il bersaglio e Philippe, facendone una leva per ancorare
il mondo, corda dopo corda, fune dopo fune, cavo dopo cavo, raggiunge lo scopo.
Ora, smentendo le previsioni della ragione e le ragioni del possibile,
l’impossibile è, letteralmente, a un passo. Dopo mesi di preparativi e
fallimenti, di false partenze e conati abortiti, dopo innumerevoli viaggi
studio dalla Saint Chapelle alla Statua della Libertà, Philippe è lì, pronto ad
agguantare il suo sogno e lo fa. Deambula per quarantacinque minuti sul filo,
vi si sdraia, si rialza, fa un avanti e indietro totalmente assurdo da
credersi. E, infatti, non vogliono crederci le migliaia di passanti che, dal
basso, lo guardano, rapiti dalla divina sfacciataggine della sua grazia senza
scrupoli. E lo scrutano i poliziotti inferociti e poi gli obiettivi di
telecamere affamate di notizie. Non ci crede proprio nessuno, così come nessuno
voleva crederci, all’alba del secolo successivo, nell’assistere allo scempio
spettrale, all’incenerimento di quelle stesse torri che Petit osò scalare e
congiungere con la sua escursione dentro al nulla. Dove può portarci l’azzardo
di una fune tesa tra il giorno, dimenticato, in cui un uomo volante sfidò le
nuvole e quello, immortale, della strage in grado di spaccare il tempo come una
mela, alla pari della nascita di Cristo? Petit, nomen omen, è
l’infinitamente ‘piccolo’, ma sconfinatamente umano, che sente e segue la sua via, per quanto esile e fragile, a dispetto di
ogni ragione. Petit è la libertà artistica
e nobile di realizzare se stessi e
rispettare i propri sogni in una misura così smisurata e irregolare da risultare
inaudita, e perciò inudibile, alle
orecchie del Sistema. L’undici settembre, da qualsiasi prospettiva lo si
guardi, è l’esatto contrario: un coagulo di energie anti-umane. Per i cultori
della versione ufficiale, esso è l’esito di un fanatismo ideologico ben
disposto al sacrificio dell’uomo sull’altare di un dio invisibile. Per i sostenitori
del complotto, esso è la trama di una
luciferina intelligenza ben capace dell’olocausto dell’uomo sull’ara di un dio occulto.
Le versioni della storia si fronteggiano, come le due guglie di New York.
Michel Petit ci cammina in mezzo. Egli attraversa il tiro di schioppo che
separa il primo pinnacolo dal secondo e i tre decenni, i due secoli, il paio di
millenni che disgiungono il sette agosto dall’undici settembre. Petit, a suo
modo, ci indica l’unica salvezza, anche se lo fa per trasfigurazioni e
immagini, un affresco vivente, e semovente, dipinto sul cielo di New York: la via
di fuga dalle matrici di morte, di qualsiasi natura e colore, è solitaria. Per
una strepitosa coincidenza del fato, proprio nel luogo in cui doveva consumarsi
il Male Costitutivo, il Peccato Originale
della Nuova Era, di cui siamo incolpevoli (inconsapevoli?) vittime, si è
realizzata l’impresa ignota che ne rappresenta l’antidoto. Quasi presagisse l’avvenire,
il ‘Matto’ ha scelto proprio quel palco
per inscenare lo spettacolo più pedagogico mai concepito. Marciando, da solo, tra
le nubi, osando l’impensabile, Philippe ci sprona a
fare altrettanto, a tendere fili di seta tra i punti saldi delle nostre vite e passarci
attraverso, anche se questo implica rinunce impopolari, scelte controcorrente,
decisioni anticonformiste. Ci dice: se non vuoi cadere vittima delle matrici
inumane, non c’è altra opzione. E non parliamo del rischio di una morte fisica
(ineliminabile), ma di quello, più grave, di una morte mentale, spirituale,
interiore, del cedere la propria coscienza a una fede altrui o all’incantamento
di un mago maligno: entrambe scelte suicide e, quindi, omicide. Petit è un minuscolo,
umilissimo profeta e si erge, col profilo non cercato, né voluto, del Grande a sua insaputa, sul
proscenio del Presente. Dobbiamo
abbandonare i sentieri tracciati, se
vogliamo trovare l’unica via di scampo: la nostra. Essa sarà sempre individuale, solitaria, ma ci ripagherà
della stessa ebbrezza provata da Petit lassù, dove i grattacieli finivano e i
cieli iniziavano. Lui c’è riuscito perché si è decontaminato dal Pensiero Corrente,
non ha ceduto alle manipolazioni, ha voluto cimentarsi con il proprio infungibile scopo, con il fine
non negoziabile della sua esistenza. Non con quello codificato per lui dalla Matrice
del Controllo: religiosa, politica o culturale che fosse. E ce l’ha fatta. Si è
salvato da solo perché la solitudine è il prezzo della Cerca del Graal, ma lo ha fatto insieme ad altri compagni di
avventura perché non si è mai davvero soli in quel tipo di viaggi. Il Cammino
di Compostela della conquista di sé
implica, giocoforza, la libertà dall’alienazione. E, quindi, la
sottrazione pacifica (perché personale), incruenta (perché disarmata), leggera (perché
senza lotte), ma eminentemente rivoluzionaria,
dal contesto in cui siamo
inseriti, dove siamo pascolati. Robert Pirsig la definirebbe una rivoluzione
zen. C’è una foto di quel giorno, presa da sotto, che cattura in uno scatto le
sagome dei titani di calcestruzzo, la fune che li unisce, una formichina umana sospesa
e un aereo che la sovrasta, con direzione opposta. Forse, è l’unica realistica istantanea (con quel
rimando involontario alla tragedia del 2001) in grado di condensare la cifra ultima
degli incomprensibili decenni alle nostre spalle. In qualche modo misterioso,
Petit è un decodificatore di senso,
ha tradotto in una lingua umana, in una poetica del significato, il diabolico, insignificante disordine dell’insensatezza e del caos. Ad allegoria conclusa, prendiamo in
prestito le parole di Philippe: “bisogna esercitarsi alla ribellione, rifiutare
di adeguarsi alle regole”. Detto da uno che non si mise a capo di un esercito,
né predicò insurrezioni, è un programma adamantino di ciò che intendiamo, il
manifesto di una rivoluzione interiore. Fine dell’allegoria. Abbiamo steso un
filo umanamente illogico tra due
eventi separati dall’abisso dei tempi, degli spazi, delle convenzioni, per
scoprire che è animato da una logica
profondamente umana. Quel filo tiene. Sta
a noi trovare il coraggio di percorrerlo. Merci Petit.
Francesco
Carraro
www.francescocarraro.com