QUEL
PICCOLO GRANDE AMORE
Claudio
Baglioni, uno dei più straordinari talenti del panorama cantautorale italiano,
ha dato alle stampe un libro, Inter nos,
che è una silloge dei suoi post su facebook dell’ultimo lustro. L’uscita della
raccolta ci dà lo spunto per una riflessione sul tema del talento letterario,
della inclinazione artistica e della forza bruta necessaria per assecondarla
senza cedere alle pressioni delle mode. Il fenomeno Baglioni nasce, cresce, si
sviluppa e poi, inaspettatamente, inaridisce, si avvita su di sé e implode per una di quelle maledette
involuzioni che toccano in sorte, a volte, anche ai grandi. Fino a tutti gli
anni ottanta, oseremmo dire fino all’album Oltre,
ma non oltre, salvo episodici sprazzi
di riconquistata facilità e felicità compositiva, Baglioni ha lasciato ai
posteri dei testi inarrivabili. Se prescindiamo dalla musica e stiamo alle
parole, e se abbiamo una minima cultura di prosa e poesia del Novecento nonché
sufficiente autonomia critica per sottrarci alla dittatura dei cliché, dovremo
ammettere che Baglioni è stato anche, se non soprattutto, un poeta. La sua vena
ritrattistica, il suo tocco naive e
la sapienza nell’animare scorci di quotidiano filtrandoli attraverso l’uso calibrato
del verbo, saranno un giorno rivalutati come pezzi di lieve bellezza. Baglioni
parlava delle cose con termini desueti, e perciò freschi e vitali, con immagini
di inusitata potenza, e perciò letteralmente, e letterariamente, immortali. Questa
sua prodigiosa fertilità creativa è, in fondo, la riproduzione pragmatica della
teoria estetica crociana: intuizione che
si fa espressione. Senza intuizione non c’è espressione formale che tenga.
Senza adeguata veste formale, l’intuizione è mero sfogo poetico. Per questo, i
poeti e gli autori sono così rari e preziosi. Essi coniugano due momenti che,
nell’uomo normale, sono
irriducibilmente separati. Sono pontefici dell’essere e congiungono la sponda
della realtà con quella, altrimenti inattingibile (salvo atti di fede), del
mistero e dell’altrove. Eppure, a un certo punto del suo percorso artistico,
Baglioni smette di produrre quel tipo
di poesia. Getta alle ortiche l’intuizione e si focalizza sull’espressione fine
a se stessa, sulla ricercatezza semantica e linguistica, sull’ossessione per il
calembour e il gioco di parole, sulla
carta della scatola, anziché sul regalo. Ecco il Baglioni degli ultimi
vent’anni, meritoriamente preso da iniziative sociali, tentato dalla sirena del
consenso alto, sedotto dal bisogno di
essere riconosciuto come uomo impegnato prima che come poeta ispirato. Fine del
Baglioni che sondava aldilà del velo
per tradurci in gemme poetiche il materiale inerte e livido della cronaca,
amorosa e non. Inizio del Baglioni opinionista, noioso interprete di un’agenda morale, anziché visionario cantore di
verità inaccessibili alla ragione. È come se il nostro avesse perso il dono che
lo privilegiava, vittima delle pur fascinose malie della lingua. Sennonché, la
lingua, con gli scrittori, è traditrice come e quanto può esserlo una bellissima
dea. Li segue ciecamente se, nell’atto
creativo, ci mettono se stessi, la loro
specifica e non replicabile cifra; volta le spalle quando essi la piegano all’altrui concetto, alla qualunque
pubblicistica del proprio tempo. Allora, la dea lascia loro il simulacro vuoto delle vesti, ma li priva
dell’oro vivo della sua nudità. Un autore russo contemporaneo la metterebbe
così: smettila di voler essere il primo, punta a diventare l’unico. Baglioni è
diventato il primo al prezzo di perdere ciò che lo rendeva davvero unico.
Francesco
Carraro
www.francescocarraro.com
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