In tempi come
questi, in cui si uccide in nome di Dio, fa comodo riesumare le riflessioni di
due giganti del pensiero, di epoche diverse, ma fratelli sia nella profondità
della condivisa meditazione sulle cose ultime, sia nella somiglianza delle
conclusioni cui pervengono. Ci riferiamo a Pascal e Dostoevskij. La scommessa
del filosofo francese è nota a tutti: tra credere in Dio e non crederci, tanto
vale buttarsi dal lato mistico delle possibili visioni del mondo giacché, se
poi Dio non esiste, non ci avremo perso nulla, ma se esiste, ci avremo
guadagnato tutto. Quanto allo scrittore russo, gran parte dei suoi capolavori,
soprattutto quelli successivi all’esilio siberiano, sono un’unica, ininterrotta
dissertazione intorno alla questione (apparentemente) cardinale dell’esistenza
di Dio e delle conseguenze che essa, o il suo contrario, producono su un
singolo individuo o su una intera società. Alla fine, sia pure attraverso
percorsi assai più tortuosi, e affascinanti, rispetto a quelli razionalistici e
di puro calcolo di Blaise, Fedor approda agli stessi lidi: conviene credere in
Dio, perché senza Dio l’uomo è perduto. Ora, lasciamo per un attimo da parte il
numero incalcolabile di morti con cui la fede in qualsiasi dio ha lastricato la storia umana (ultimi della lista,
quelli sul selciato di Parigi), e chiediamoci se e in che misura la visione di
un Pascal e di un Dostoevskij rechi le stimmate di un fattor comune. Un fattore
che rende i due geni straordinariamente attuali e consonanti a talune
direttrici di questa specifica epoca storica. La risposta è in un termine che
non vale, è ovvio, a sminuire la vertiginosa superiorità intellettuale dei
pensatori citati. E quel termine è arroganza.
L’arroganza di chi si pone (e pone al volgo), si dà (e dà ai propri lettori)
due sole opzioni rispetto alle sorti escatologiche dell’uomo: o Dio c’è (e, con
esso, paradiso e inferno) o Dio non c’è (e, con il suo non esserci, ci sono
invece il nulla e il nichilismo che ne discendono). Ciò che stupisce in un
simile approccio, di cui Dostoevskij e Pascal sono supremi e insuperati
modelli, è che non prenda nemmeno in considerazione la fantasmagorica quantità
e qualità delle alternative possibili, a proposito del destino in agguato per
tutti, una volta varcata la fatidica soglia. Parliamo di alternative
prospettate, con le più varie sfumature, da innumerevoli tradizioni esoteriche
ed essoteriche e dotate di pari dignità sul piano logico e ipotetico: esse
vanno dalla frammentazione della coscienza alla reincarnazione, dalla deriva
eterna in un sogno inconsapevole all’ipotesi di un dio cattivo. Ma i pasdaran
del dopo non le considerano, non se
ne curano. Per loro, o c’è un Dio buono e amorevole o lo stesso Dio non c’è: tertium non datur. Essi sanno già che la scelta è, in fondo, un dilemma a
due corni. Ora, l’arroganza non sta tanto nel credere in Dio, ma nel ridurre
proditoriamente il ‘Problema dei problemi’, quello delle praterie post mortem, ad un rebus per lattanti. Poi,
quel rebus lo risolvono anche e ti spiegano pure quanto migliore sarebbe il
mondo se tutti si convertissero alla loro
risposta. Forse non ce ne eravamo accorti, ma in questo tipo di coltura alligna una mala pianta. E stiamo tornando ad assaggiare il sapore dei
suoi frutti.
Francesco
Carraro
www.francescocarraro.com
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